Li avevamo conosciuti quando usci il loro sophomore, quel mezzo capolavoro intitolato “Salvation Is A Deep Dark Well”, e fu un facile colpo di fulmine. Conquistati dalle stringate note biografiche che raccontavano la loro fuga repentina dalla natia Alaska verso la mecca di Portland, Oregon, persuasi dalla bontà di quella formula, a metà strada tra rock delle radici, gospel esacerbato da trita retorica battista e alt-country incendiario, non avremmo avuto la minima esitazione a puntare sul loro nome il fatidico nichelino. Col senno di poi, questo si sarebbe rivelato un azzardo privo di prospettive. Quattro anni e due dischi dopo, ritroviamo gli stessi The Builders & The Butchers aspri e teatrali di allora, ma senza più la bruciante forza propulsiva che avevano saputo infondere in quel particolare momento magico. “Dirt In The Ground”, per dire, conserva intatta l’ebbrezza del loro arrembante American Gothic in salsa folk e riesce ancora contagiosa, malgrado una penetrante impressione di déjà vu. Dall’indiavolato blues da fiera di campagna che in “Redemption Sound” si trova ad attingere per l’ennesima volta da un patrimonio di allegorie (religiose per lo più), tanto elementari quanto efficaci, al senso di incombente calamità tratteggiato dalle ritmiche poderose (la doppia batteria è uno dei marchi di fabbrica della band) o dalle accese coloriture acustiche – tutto come da repertorio – in “Desert On Fire”, i cinque statunitensi rispolverano senza sostanziali novità la medesima prospettiva manichea e la verve da predicatori già sfoggiate nelle precedenti occasioni (non fanno eccezione l’immediato predecessore, “Dead Reckoning”, e l’esordio eponimo del 2007) con relativo corollario di diavoli, dannazione e fuoco a tutto spiano, affidato a testi al solito fin troppo immaginifici. In fondo la band è a tal punto appassionata di schematismi dogmatici da averne adottato uno persino nella propria ragione sociale.
Dentro “Western Medicine” la tensione si mantiene vibrante, le sonorità calde e avvolgenti mentre ogni spazio viene saturato dalla tracimante pienezza del collettivo, anche in brani apparentemente meno densi. I Builders hanno perso qualcosa in termini di dinamismo e impetuosità, ma sul piano lirico si confermano intensi e sufficientemente ispirati. La voce potente, solenne e nasale, di Ryan Sollee vale ancora da sola metà dell’opera, ma il robusto impianto strumentale, tutto insieme, funge per essa da straordinaria cornice. Da questo punto di vista i ragazzi dell’Alaska sono forse persino cresciuti, per quanto la loro accesa propensione espressionista non possa che limitarne i favori presso un più ampio pubblico.
Nonostante le sanguigne atmosfere tra country picaresco e blues del Delta (curioso punto d’incontro tra i padri putativi Decemberists, i conterranei Portugal The Man e i Felice Brothers), la loro rimane musica di genere, assai limitata in quanto a varietà di soluzioni praticabili, data anche la ritrosia (ammirevole tutto sommato) a svilire la propria cifra con contaminazioni fuori luogo o artifici sintetici. Il grosso limite di uno stile così peculiare risiede nell’impossibilità di aprirlo a significative evoluzioni senza comprometterlo irrimediabilmente: così i Builders sembrano schiavi della loro stessa eccentricità, campioni in un regno minuscolo destinato a non crescere mai.
Il western morriconiano di cui parla la nota stampa è ovviamente assimilato e rielaborato in base alla propria indole e all’enfasi galoppante del disco. Il fervore mantenuto come sempre ad alti livelli compensa le fisiologiche flessioni a livello di scrittura mentre l’istintualità ha gioco facile a prendere il sopravvento. L’umore tuttavia non vira di mezzo grado, così ci si ritrova ad apprezzare un lavoro impeccabile ma di difficile digeribilità che richiede all’ascoltatore la più idonea predisposizione d’animo e una buona dose di pazienza. Ad alzare il coefficiente di difficoltà è la considerevole lunghezza dell’album: qualche taglio significativo e una maggiore agilità nei singoli episodi avrebbero giovato, ma è certo che non si possa rimproverare la compagine statunitense per scarsa generosità. Basta anzi la coralità ossessiva della cantata “Poison Water” a mettere in risalto tutta la determinazione dei cinque di stanza a Portland, la loro proverbiale tenuta a livello emotivo e la potenza di un sound volutamente datato, analogico, artigianale ma anche di tonante visceralità.
In una veste appena meno bulimica o straripante, il gruppo svela tutte le sue esplosive potenzialità, pur nel chiuso del proprio ambito di riferimento. Basta il tono sofferto ma trattenuto di “No Roses”, la misura nell’impiego sapiente di pianoforte e chitarre oltre a un refrain davvero memorabile, per ritrovare la trascinante umanità della compagine di Colin Meloy, quando ancora non suonava avvelenata dalla maniera. Oppure il banjo alla guida dell’affilata “Ceceil”, ballad fragile e spogliata finalmente di tanti orpelli, prima che “Take Me Home” apra il finale a una contemplazione più serena dopo uno sproposito di incubi, nuvole nere e piaghe bibliche.
La marcata inflessione sudista riporta in auge la concretezza positiva e virtuosa della terra, della tradizione, mentre il mandolino di Harvey Tumbleson asciuga le asprezze e ingentilisce, seguito a ruota dall’hammond luminoso e dalla voce di un performer di razza come Sollee.
Un disco difficile, insomma, ma ancora di qualità, per una formazione a suo modo incredibile destinata a non sfondare mai.
24/08/2013