Minimalismo come parola chiave di due distinte ricerche sonore e della loro fusione: ecco il miglior (e più conciso) biglietto da visita che si possa redarre per descrivere A Winged Victory For The Sullen, ovvero una delle collaborazioni più efficaci e meglio realizzate degli ultimi anni. Quel che stupisce, col senno di poi, è che la “prima volta” del progetto condiviso di Adam Wiltzie e Dustin O'Halloran, tre anni fa, non era riuscita a convincere e affascinare quanto sarebbe stato lecito attendersi. Si era già pronti a gridare alla bellezza delle frasi di pianoforte che il secondo sarebbe stato in grado di ricamare sulle inconfondibili effusioni elettroniche del primo: e invece il responso fu sorprendentemente minato da un eccessivo rigore formale, tale da accecare e racchiudere entro rigidi limiti qualsiasi suggestione.
Probabile, se non sicuro, che i due se ne siano accorti e abbiano voluto “correggere l'errore” in questo secondo lavoro a quattro mani, che risulta essere, dunque, una magnifica cartina di tornasole sulla reale consistenza della loro collaborazione. “Atomos” è, alla sua nascita, la colonna sonora che il coreografo Wayne McGregor, dopo aver apprezzato lo stile del loro omonimo primo parto, ha commissionato ai due per una delle sue ultime performance. Dodici movimenti numerati, dodici atomi (suggerisce il titolo) di una medesima molecola, i cui nuclei sono formati da quelle limpide e pacate armonie elettroniche che Wiltzie aveva tenuto in precedenza tenuto da parte, e che lo stesso McGregor ha suggerito di implementare. Tutt'attorno, i ricami degli archi sono affidati a una nuova serie di collaboratori, mentre il pianoforte è confermato nel ruolo di guida dell'ensemble.
La scintilla d'intesa decisiva tra i due arriva però a livello compositivo, con il comun denominatore trovato tra il Wiltzie cameristico (lo stesso protagonista negli ultimi lavori a nome Stars Of The Lid) e il minimalismo cinematografico di O'Halloran. L'eccezionale equilibrio è palese già a partire dai dieci minuti del primo movimento, sorta di introduzione passo a passo nel limbo magico creato dai due: prima l'elettronica, poi gli archi, infine il piano. Nel secondo movimento è il violoncello a prendersi il suo momento di protagonismo e a guidare verso i saliscendi del terzo, per poi compiersi nell'unisono da pelle d'oca del quarto. La sobrietà, già tratto somatico del primo disco, è qui riconvertita da condizione necessaria a conseguenza: l'intensità è cercata (e trovata) nel sentimento più che nell'estetica, così che venga a mancare la necessità stessa di qualsiasi eccesso.
Anche nei passaggi in cui viene concesso maggior spazio al dinamismo - in particolare grazie all'acuta alternanza fra silenzi e sorprendenti riprese - come nele tele elettroniche del sesto e del decimo movimento o nel crescendo degli archi del settimo, quest'ultimo non va ad alterare la purezza che contraddistingue l'intero lavoro.
La chiusura sottovoce del dodicesimo movimento, la contemplazione interiore del quinto, il passaggio da soundtrack dell'ottavo e la silenziosa ninna nanna dell'undicesimo sono autentici modelli di bellezza ideale, dove l'indubbia perfezione formale è subordinata in maniera decisiva a un'incredibile intensità emotiva. Una scultura sonora in cui ogni brano compone un dettaglio lavorato e pensato singolarmente, da due menti che hanno conseguito un affiatamento a dir poco fuori dal comune. Per un ritorno in casa Kranky che almeno in parte delude (Labradford/Anjou), ce n'è un altro che si colloca dritto fra i dischi dell'anno.
16/10/2014