Ognuno di noi ha una propria lista delle band più ingiustamente sottovalutate, eventualmente divise in italiane e internazionali e magari con un ordine progressivo. Nel mio elenco di band nazionali, al primo posto ci sono, ormai da anni, i Guignol. Attivi da fine anni Novanta, apparsi sul mercato discografico con il primo Ep nel 2003 e con il primo album nel 2005, oggi giungono al quinto lavoro con una line-up rinnovata – e non è la prima volta – che gira comunque attorno alla figura del leader Pier Adduce, un musicista e una persona che ama dire e fare le cose con fermezza ma senza arroganza, lanciando messaggi chiari, ma pesando sempre le parole e le modalità con cui farlo.
Quanto appena detto vale non solo per i testi della band, ma anche per la parte strettamente musicale. In cinque album, i Guignol hanno esplorato diversi stili del rock, ma hanno sempre mantenuto un suono caratterizzato sia da pienezza e impatto che da una capacità evocativa di atmosfere notturne che portano chi le vive a pensieri profondi e ponderati, anche quando ci si trova in situazioni movimentate. Un immaginario chiaro, quindi, anche se non si prendessero in considerazione le parole cantate: se anche solo esistessero delle versioni strumentali dei brani dei Guignol, si respirerebbe comunque la sensazione di resa dei conti, o con qualcun altro o con se stessi, nelle ore che precedono l’alba.
I testi, poi, accentuano il carattere senza compromessi della proposta artistica della band, disegnando una serie di ritratti diversi ma contigui tra loro: certi personaggi e certe situazioni alla moda che sotto il proprio atteggiamento non hanno nulla, il disagio strisciante che permea la vita notturna dei quartieri di periferia o dei piccoli borghi, i momenti in cui ci si rende conto che certe situazioni sono molto più problematiche di quanto ci si immaginava, il sentire che si è presa la decisione giusta e definitiva. Si sa che se si rimane svegli in piena notte, i colori fuori sono oscurati, ma la potenza emotiva di tutto ciò che succede intorno a noi e dentro di noi è decisamente amplificata.
Appare esserci un motivo se solo ora la band esplicita il proprio immaginario già dal titolo: questo disco, infatti, suona come il più diretto e, appunto, esplicito che la band abbia mai realizzato. Anche qui, il discorso vale eccome per la musica, non solo per i testi. Non tanto per il songwriting in sé, perché ci sono stati dei momenti del passato in cui le melodie erano decisamente più aperte e immediate di queste, ma per il suono, mai così essenziale e dritto al punto. Anche gli inserti di violino danno più l’impressione di aumentare la schiettezza più che la ricchezza sonora. La cura del dettaglio è la stessa di sempre, ma è solo un mezzo per accentuare il suddetto contrasto tra la cupa uniformità del paesaggio fuori e la girandola emozionale che si scatena dentro di noi, e lo spirito del disco è più che mai da rock di strada, da andare fuori, non pensare a niente e ritrarre quello che succede, perché tanto qualcosa succederà di certo, se non concretamente, almeno nel nostro lato introspettivo.
Infatti, nel disco si susseguono situazioni diverse, rappresentate ognuna nei modi più opportuni e anche messe in fila in modo da creare la giusta contiguità di atmosfere e un logico discorso d’insieme. Si parte forte con “Staremo Bene” e “Mr. Faust”, due fucilate rock che contengono altrettanti ritratti negativi di persone specifiche; da qui i toni si calmano e arriva una lunga serie di brani a basso voltaggio i cui testi sono rivolti a riflessioni o rappresentazioni più generali; alla fine, però, il nervosismo torna a emergere con le ultime due canzoni.
All’interno delle due tipologie specificate, comunque, i singoli episodi non sono certo tutti uguali, ma ognuno si caratterizza per qualcosa di proprio: “Piccola Città” è la più vivace tra le canzoni tranquille e ha una struttura in continua variazione, soprattutto dal punto di vista ritmico; “Il Quartiere” porta con sé un intimismo abrasivo e fortemente blues; “Le Consegne” è soffice e delicata. Anche i testi hanno ognuno una propria identità: “Gli Alberi Degli Impiccati”, ad esempio, è dedicata al numero crescente di suicidi che si susseguono per problemi economici mentre chi ci governa non solo non fa nulla ma peggiora la situazione; “L'Ulisse”, invece, è una metafora di come sia difficile trovare un posto in cui ci vada tutto davvero bene e anche dove si è convinti che sarà tutto tranquillo.
Al quinto album, i Guignol riescono ancora a proporre una raccolta di brani con moltissimi spunti e motivi di interesse, mostrando di avere ancora tanto da dire rimanendo comunque se stessi. Non è facile trovare un gruppo che, dopo tanti dischi, si mantenga coerente con la propria natura, trovando sempre un modo diverso e azzeccato per esprimersi; la loro posizione di vertice nella mia lista di sottovalutati italiani di cui a inizio recensione è sempre più solida; sarebbe giusto che finalmente ottenessero la notorietà che meritano, ma se anche ciò non avvenisse, il loro resterebbe comunque un repertorio di alto livello, ed è bello vedere come, a nove anni dal primo disco, siano una band che continua a maturare mantenendo costante un importante tasso qualitativo.
26/03/2014