Strategia vincente non si cambia. E quindi (quasi) tutti i pezzi dell’album disseminati su YouTube nel corso dell’anno, ognuno corredato dal suo videoclip con dietro un vago fil rouge a unirne idealmente le curatissime immagini (la potenza del mare e dell’acqua quali antidoti alle paure quotidiane!?) e finalmente, dopo nove mesi, la pubblicazione dell’album completo.
Iamamiwhoami, il progetto multimediale di Jonna Lee e del suo co-produttore Claes Björklund, arriva quindi alla terza prova dopo l’affascinante esordio “
kin” e la compilation “bounty”, uscita lo scorso anno e che raccoglieva pezzi e relativi
clip pubblicati in rete prima del debutto ufficiale, quando ancora non era chiaro chi si celasse dietro il misterioso
moniker. Sono però passati ben cinque anni da allora e oggigiorno sembra che in rete la curiosità attorno al progetto stia un po’ scemando. L’aver scoperto e ormai metabolizzato che dietro la più originale e virale campagna promozionale degli ultimi anni non c’era un grosso nome della musica (come inizialmente si pensava) ma una sconosciuta e non troppo avvenente cantautrice svedese ha probabilmente tolto un po’ di fascino e di contorno
glamour al suo immaginario, spesso portando a sottovalutare e sorvolare sulla bontà dell’offerta musicale.
Nel mentre proposte simili, come quella della più giovane e
hipster-oriented Grimes, raccoglievano lodi, visibilità e riconoscimenti decisamente più ampi e
Beyoncé veniva addirittura salutata come pioniera per aver rilasciato online un
visual-concept album.
Non potendo più contare sull’effetto novità e tantomeno su quello sorpresa, Jonna Lee stavolta punta tutto su una maggiore accessibilità del suo lavoro. Lo si intuisce immediatamente a partire dalla copertina, che abbandona la stile minimale e archivistico delle precedenti a favore di un’immagine patinata quanto il manifesto pubblicitario per un prodotto rinfrescante. Lo si capisce guardando anche i suoi nuovi
videoclip, un po' didascalici e che sembrano pagare pegno più ai documentari del National Geographic che alle fiabe nordiche e agli incubi domestici che animavano i suoi primi lavori. E se ne ha la conferma ascoltando la sua nuova musica, non più sorretta dall’elettronica brumosa e di matrice
björkiana che caratterizzava “
kin” ma da battiti decisi (vicini ai momenti più incalzanti di “bounty”) contornati da riverberi e synth talmente solenni da riportare subito alla mente un certo synth-pop anni 80 (“hunting for pearls” e “chasing kites” i momenti più indicativi).
Ad ammorbidire le atmosfere di “BLUE”, così algide e vintage, e l’interpretazione della Lee, sempre in bilico tra l’innocenza fanciullesca e la malizia di una strega teutonica, ci pensa une serie di melodie sinora mai così estroverse e ariose. Quel senso di claustrofobica malinconia presente nell’album precedente è qui edulcorato a favore di un approccio così esasperatamente romantico e
dreamy da rendere i brani addirittura fin troppo simili tra loro nelle intenzioni: impossibile elogiare la cristallina bellezza di “fountain” o “vista” (e allo stesso tempo criticarne l’innegabile retrogusto un po’ stucchevole, alla
ABBA) senza far torto a “blue blue”, “shadowshow” e via dicendo.
A spezzare il
mood imperante e finendo inevitabilmente per risaltare, pur non essendo tra le proposte migliori, una più soffusa “thin”, più in linea con quanto realizzato in passato, e l’inaspettato tribalismo
rave di “ripple”, che sposa forzatamente la predisposizione non proprio aggressiva della Lee.
L’impressione è che “BLUE” sia un album che funzioni addirittura meglio quando non corredato dalle immagini d’accompagnamento (poco male, giacché l’aspetto multimediale stavolta non sempre possiede quel fascino e quella suggestività a cui si era ormai abituati) ma anche un lavoro non sempre al passo coi tempi e troppo spesso autocompiaciuto.
Non che il progetto iamamiwhoami inizi a fare acqua da tutte le parti, tutt’altro, ma una dose maggiore di eterea introversione avrebbe forse giovato e ammaliato di più.
12/11/2014