Chiedo scusa ma mi ero distratto. Avevo chiuso in un angolo della memoria la notizia di un nuovo album di Keaton Henson, forse è colpa della sua rinuncia al canto e al verbo della poesia, il motivo del mio momentaneo obnubilamento. Riagguantare per caso questa pagina di suggestioni neoclassiche è l’emozione più acuta e coinvolgente che potesse regalarmi questo ultimo mese dell’anno.
Illustratore, poeta, songwriter e musicista, il ventiseienne Keaton Henson è entrato in silenzio nel mondo della musica, vincendo le sue paure del palcoscenico e trovando stimolo e fiducia negli amici che casualmente avevano ascoltato le sue bedroom-song. È uno dei pochi artisti capaci di trasformare la vulnerabilità e la sofferenza umana in un universo poetico privo di compiacimento, sfoggiando una musicalità sempre acerba dove il caos e il rigore viaggiano insieme, e dove la parola e il silenzio si adagiano su un comune idioma linguistico.
Aver riconnesso le mie onde cerebrali con l’universo di Henson mi ha restituito quella sobria malinconia che di solito non ami condividere nemmeno col tuo amico più caro, un inatteso affresco emotivo che evoca le migliori pagine di Henryk Górecki e Arvo Pärt, ma anche Max Richter e Virginia Astley. Piano, violoncello (l’ottimo Ren Ford) e aerofoni risonanti: sono questi gli strumenti che in poco più di 30 minuti di catarsi emotiva e spirituale assurgono al ruolo di voci dell’anima, con angosce che trasmutano in metafore (“Elevator Song”) e sogni che divengono ossessioni (”Earnestly Yours”).
Album dal lirismo mai superfluo eppur familiare, “Romantic Works” offre una narrazione lirica potente, dove ogni spunto pianistico è frutto di un’accorata ricerca armonica (“Petrichor”) e la passione per la pittura dell’autore si trasforma in un affresco dai toni ora pastorali (“Field”), ora contemplativi (“Emissary”). È come sfogliare il diario di una persona cara il cui ricordo oscura il cuore (“Josella”), o come quando apri un cassetto per buttar via gli ultimi inutili ricordi di un passato dove ancora albergava la voglia di un futuro (“Healah Dancing”): si tratta insomma di una colonna sonora dove ogni brano è un titolo di coda per una sceneggiatura di cui hai dimenticato i dialoghi (“Nearly Curtains”) e che ti appresti a conservare in una vecchia scatola di legno poggiando sopra di essa l’ultima fronda dei tuoi pensieri.
“Romantic Works” non è in verità un album romantico o conciliante: dietro la sua apparente dolcezza si nascondono ruvide imperfezioni emotive, pensieri dall’inguaribile malinconia che provano a ribellarsi a quella innocenza opprimente dei sogni.
Senza trovare le parole giuste per un conforto momentaneo e fugace, Keaton Henson ci ha regalato il più amaro e triste album dell’anno: amarlo è quasi impossibile, ma fuggire da esso vuol dire arrendersi all'alessitimia.
02/12/2014