“Le quattro stagioni” di Antonio Vivaldi sono di certo tra le più bisognose di uscire dal cliché dello sfruttamento pubblicitario e cinematografico, e per questo non necessitano di una semplice manipolazione digitale – una sorta di accorto restauro, nel caso dell'incompiuta di Mahler – quanto di una sentita e meticolosa riscrittura integrale, in seguito affidata agli stessi strumenti per cui erano state pensate.
In tal senso, a prescindere dai giudizi sul risultato finale, la sfida è stata davvero imponente per Max Richter, figlio adottivo del post-minimalismo e premiato autore di numerose soundtrack. Stavolta non si è trattato di emulare il compositore secentesco con i mezzi odierni, bensì di risalire alle singole note dell'antico spartito e diventare un nuovo Vivaldi, uno spirito nostalgico travolto dal fervore della postmodernità.
Ritornare allo spunto iniziale, penna e calamaio alla mano, per immaginare di nuovo le stagioni dell'anima: a cominciare dall'arcinoto incipit primaverile, nel quale il moto uniforme dei violini viene frammentato e distribuito nello spazio sonoro, una fioritura spontanea e non uniforme come avviene in natura; una solenne gaiezza che chiunque potrebbe scambiare per un inno dei più recenti Sigur Rós, sorretti dalle Amiina in stato di grazia.
E' l'occhio di Godfrey Reggio che sorvola le facciate dei grattacieli, carezzate dai raggi di sole che recidono le nuvole, uno spettacolo cui Philip Glass assiste ancora in prima fila – decisamente suo l'impeto circolare e ossessivo dei violoncelli e gli stacchi improvvisi, irrisolti, al termine di ogni movimento. Le stagioni di Richter non sono mai uniformi, dettate da un unico stato d'animo: passione ardente e nostalgia si rincorrono costantemente in ogni sezione, che il nostro rielabora a piacimento e senza troppe riluttanze, conducendo con mano sicura i singoli strumenti dapprima in un silenzio desolato, per poi risvegliarli di colpo in un moto implacabile (“Summer 1; 3”).
Sono davvero poche le frasi conservate in forma originale, e anche in quel caso c'è uno spessore tutto nuovo dietro il primo violino, un paesaggio spirituale come l'avrebbero dipinto Arvo Pärt e Henryk Górecki. Ma a Richter basta davvero poco, appena l'elisione di una sola nota, per proiettare una melodia nel nostro tempo (anche in senso musicale) e darle un respiro e un significato più in linea con il gusto attuale.
Di continuo si alternano momenti di una bellezza disarmante ad altri di rinnovata maniera (specialmente l'Autunno soffre di questo bipolarismo), non abbastanza audaci da rendere “Le quattro stagioni” l'esperienza del tutto inedita che si vorrebbe. Richter afferma di aver trasformato o scartato ben tre quarti degli spartiti originali: ma il bello della reinterpretazione come genere sta nel fatto che avrebbe anche potuto stravolgerli completamente, in modo forse ancor più coraggioso che in questo pur lodevole sforzo.
Osare comporta dei rischi, ma spesso porta anche frutti di gran pregio: Richter è certamente sulla buona strada.
(24/09/2012)