Mentre a livello mainstream la scena house ha raggiunto nel Regno Unito numeri stratosferici, arrivando a piazzare in classifica titoli tra i più impensabili e dominando incontrastata in questo 2014 a lei del tutto propizio, anche le “retrovie” di certo non sono rimaste a guardare, spingendone piuttosto i confini, alla ricerca di possibili forme espressive da esplorare, di nuovi punti da tracciare sulla mappa. Un obiettivo irrinunciabile al di là dell'ambiente di appartenenza, irto di insidie eppure stimolante come non mai, se interpretato nel modo giusto e affrontato con la necessaria personalità. Leon Vynehall sembra essere l'uomo destinato a perpetuare i fasti di questa lunga e sorprendente stagione house all'inglese, e la sua una visione che, con la dovuta attenzione (che già sta arrivando, almeno a livello critico) potrebbe aprire nuovi discorsi nel settore. Il coraggio e la voglia di osare di certo non mancano.
Nativo di Brighton, ma di stanza a Portsmouth (lontano quindi dalle convulse atmosfere di Londra e dalle sue infinite tentazioni), con un solido retroscena di pubblicazioni “minori” nel corso degli ultimi anni (interessante tra i tanti il “Rosalind Ep” dell'anno scorso), il giovane producer possiede idee ben chiare, uno sguardo interessante e una voglia di mettersi in gioco che, se da un lato lo porta ogni tanto a strafare, dall'altro mette in chiaro che non è proprio tipo da prendere alla leggera. Il doppio dodici pollici con cui esordisce sulla lunga durata, “Music For The Uninvited People”, rende finalmente palese quanto appena detto, mettendo un minimo d'ordine in una discografia finora del tutto dispersiva, ma soprattutto consentendo di apprezzare con la dovuta organicità tutta la personalità del suo firmatario, che con la restante carovana UK-dance ha ben poco a che spartire, per tutta una serie di motivi.
Stilisticamente parlando, è infatti arduo anche soltanto il rintracciare punti di congiunzione che testimonino la vicinanza, negli intenti come nei risultati, con i protagonisti della nuova house inglese. Vuoi per una totale mancanza di vocalist che avvicinino Vynehall anche soltanto a lambire il concetto di pop, vuoi per una complessità nelle strutture che sfugge del tutto ai più tra i colleghi, il produttore indovina la sottile linea di incontro che unisce il filone abstract di là dall'Oceano con le fogge più definite d'Albione, iniettandovi una generosa dose di richiami alla garage che fu (anche in questo senso lo sdoganamento effettuato dai Disclosure proprio non trova contesto), e suggestioni techno, in un fitto dialogo tra epoche e attitudini.
Il connubio, manco a dirlo, perlopiù funziona: specialmente quando Leon decide di investire tempo sulle ritmiche, di corredare di beat sinuosi e felpati atmosfere costruite in maniera certosina (“Goodthing”, con la sua lussuosità garagey ad affiorare qua e là, la spunta su tutte), l'appagamento, fisico o mentale che sia, è assicurato. Su delicati motivi d'archi scivola curiosa la melodia di tastiera di “Inside The Deku Tree”, dal ritmo appena accennato e col passo delicato, lontana dagli esagerati (e vani) crossover dei Clean Bandit; con gli stessi galanti scintillii si propone “Be Brave, Clench Fists”, che tradisce però la sua simpatia per un più marcato utilizzo dei bassi e per qualche vago sentore in area deep. Quando poi arriva sul serio il momento di muoversi, Vynehall non è proprio il tipo da tirarsi indietro: “It's Just (House Of Dupree)” attacca senza troppi convenevoli con la cassa, prima che voci campionate e un diffuso assetto micro-melodico contribuiscano a implementare il già seducente tessuto di base.
I problemi sorgono quando l'impianto house non soltanto sfuma fino a rasentare l'atmosfera pura, ma quando questa stessa atmosfera non trova la benché minima consequenzialità d'ascolto, risultando soltanto un elemento di “fastidio” nel complesso. Purtroppo, i due brani a chiusura rispecchiano perfettamente la descrizione: non mancano collaudati trucchi del mestiere, bassi belli accentuati o anche richiami a sempre benvoluti andamenti chillout, il punto è che a essere assente è l'intuizione vincente, lo scacco che ti tiene irretito anche privandoti di un reale elemento ritmico. Quel di cui ancora non è dotato Leon è insomma quanto invece ci ha emozionato in Francis Harris e nel suo album-rivelazione “Minutes Of Sleep”. Di materiale su cui lavorare però ve n'è davvero in gran quantità; il ragazzo ha tutto ciò che serve per tirare fuori il grande album.
30/10/2014