Quando ho letto la notizia ho avuto un brivido.
Perché proprio qualche mese fa ho percepito tutto il peso dei sette anni che ci separavano da “Excellent Italian Greyhound”.
Per il rimando cromatico dell'ultima copertina a quella del loro irraggiungibile esordio di due decenni fa esatti, consapevole che non sia mai cambiato nulla nel loro stile, che abbiano sempre e solo voluto essere quegli Shellac. Steve Albini, Bob Weston e Todd Trainer, punto.
Per l'asciuttezza della scheda informativa nello store Touch And Go – poiché sui loro album non ci sarebbe davvero nulla da dire, tranne specificarne la suprema qualità audio (“as always, with Shellac”).
Perché, diamine, gli Shellac sono gli Shellac.
Benedetto il giorno in cui Albini decise di sgrossare la distorsione della sua chitarra, staccando la fuzzbox e affilando ulteriormente i suoi riff, per gettare anzitempo (ma neanche troppo) la pietra tombale sul rock storicamente inteso. Rapeman e Big Black erano solo i feroci preamboli di un'ideologia che nel tempo ha raggiunto una solidità inscalfibile, un manifesto dopo l'altro. Certi momenti di “Dude Incredible” (senza virgola) non sono nemmeno troppo distanti dal loro lascito più radicale, l'introvabile Lp “The Futurist”, dove la trance ripetitiva raggiungeva il suo limite ultimo.
Siamo qui di fronte all'ennesimo compendio di geometrie perfette, un nuovo sogno proibito per l'ossessivo-compulsivo che c'è in noi – e non a caso “Compliant” parla proprio di questo disturbo. Nove tracce, mezz'ora di interplay algido e serrato, nulla più di quel che avremmo potuto chiedere. I nostri rimettono a lucido la loro estetica del nervosismo e del riduzionismo hardcore, piazzando in sequenza tracce perlopiù brevi, dirette e auto-esplicative (unica eccezione la cadenzata “Gary”).
Si apre con una title track al vetriolo che da sola vale il carico di attese che la precedevano: capolavoro di intrecci e riff all'unisono ma, stranamente, uno dei pochi episodi in cui i tre strumenti hanno esattamente lo stesso peso, mentre altrove sembra avere la meglio il basso di Weston, che anche dal vivo riesce sempre a dettar legge nonostante gli assalti noise di Albini (giustamente Steve mi staccherebbe la testa a morsi per questo). In “Riding Bikes” giocano addirittura a ruoli invertiti, con lo stoppato della chitarra che funge da metronomo per le digressioni melodiche del basso.
Uno pseudo-tema ricorrente è, curiosamente, quello degli agrimensori (surveyors): il frontman spiega che molti dei padri fondatori d'America svolgevano personalmente le misurazioni dei terreni statali per delimitare i confini proprietari, mentre oggi il termine “surveyor” ha assunto un significato più sinistramente orwelliano, riconducibile a strumenti robotici programmati per controllare dall'alto le persone.
Per il resto trovano spazio varie invettive lampo, ridotte a telegrammi sprezzanti sul vandalismo, le dinamiche di gruppo e i rapporti sessuali. Particolarmente efficace il rimando sinestetico di “The People's Microphone”, instrumental ottuso e massimamente spigoloso che fa riferimento alle manifestazioni di “Occupy Wall Street” (et similia) e alla contestuale invenzione di un megafono umano per diffondere messaggi tra la folla.
Gli stop netti e ingannevoli – quintessenza dell'arte sincopale – il martellare nitido della batteria, l'asciuttezza di ogni singolo passaggio: tutti elementi ampiamente collaudati e che trovavano già la loro forma più iconica in alcuni apici di “1000 Hurts”; ma a costo di ripetersi, il punto centrale è che vent'anni dopo “At Action Park” la rabbia impetuosa e strenuamente pointless degli Shellac non è calata di un grammo. Vi pare poco? Dude, incredible.
18/09/2014