Dopo alcune esperienze di gruppo, il genovese Haxel Garbini pubblica i primi brani come autore solista, alcuni comparsi anche su compilation: il post-rock lisergico di “I girini esplodono al sole”, il folk mutante di “Salita Brasile” e “Chewing-Gum”. Altri esperimenti compaiono nel suo primo album “Uri”, e per Garbini è l’occasione per mostrare anche un ordine o comunque un comun denominatore, una cupezza tutta atmosferica.
“Lago peloso” è un solfeggio ciclico deformato e scandito da una plumbea distorsione elettronica. A volte l’esercizio suona come un frammento esausto del “Drumming” di Steve Reich (lo scampanio di “Morto in un fienile”), o come un messaggio alieno che giochicchia con i cori barbershop vecchio stile (“Estate 1984”). Più complessa e libera dalla logica dei loop è “Emergere-Fluttuare”, un misto illusionistico di rigurgiti cavernosi e risonanze tibetane (ma a metà l’atmosfera si rischiara del tutto in uno strimpellio primaverile).
Solo due i momenti relativamente cacofonici, l’irta cadenza di chitarra Hendrix-iana “Film sulla psicocinesi”, con calcato ritocco elettronico, e “Saponificazione”, un continuum siderale di stridori elettronici con sottofondo di terremoti.
I brani che deviano dal parametro dell’oscurità sono stereotipati, gradevoli alla meglio: il valzer folk di “Inundata”, e soprattutto il sofficissimo acquarello di vocoder post-Kraftwerk di “Dobbiamo scappare”.
Garbini incarna romanticamente la figura dello sperimentatore italico minimalista, disinteressato alle definizioni di genere e appassionato solo di timbri e delle loro possibilità. Con qualche accorgimento - l’uso dello stetoscopio al posto del microfono - liofilizza impressionismo ed espressionismo in un discorso sciatto, anti-spettacolare, fatto di gesti più che di note. Un buon ventaglio che ha un tallone d’Achille, anzi due, è incompiuto, e lo ribadisce episodio dopo episodio. Edito solo in vinile trasparente.
09/08/2015