Un drone vagamente minaccioso getta cupe ombre sull’orizzonte: forse che il quinto disco della indiscussa regina del folk inglese sia quello della svolta ambient? Ma no... pochi secondi e il suo tocco ormai riconoscibile va a lambire cupe corde di chitarra, ormai vero e proprio specchio dell’anima di Laura Marling. “Warrior” spiazza con i suoi riverberi rumoristici e, in un contesto di “guerrieri”, apre la mente su mondi medievali ormai dimenticati, ma i cui segreti vengono schiusi divinamente dalle poesie ancestrali con cui questa artista non manca di deliziarci ogni volta (vedi “Devil’s Resting Place” nel disco precedente). Eppure, nonostante le premesse del brano d’apertura, “Short Movie” è il suo album più accessibile da un po’ di tempo a questa parte, certamente non per una banalizzazione delle composizioni, ma a causa di un approccio più diretto e sentito sia in fase di scrittura, ma soprattutto di interpretazione.
“Once I Was An Eagle” era la summa di un percorso, un monolite di rara bellezza, ma altrettanto complesso e indistricabile, continuo flusso tra una traccia e l’altra, in cui molti hanno faticato a navigare (non il sottoscritto, che lo reputa ad oggi il suo disco definitivo). D’altra parte, sin dal primo singolo tratto da “Short Movie”, la title track per l’appunto, si è notato un ritorno alla spontaneità degli esordi nutrita però di tutta la maturità e bravura acquisita in questi anni. “Short Movie” è una perla, pezzo in continuo divenire, come lo splendido quanto semplice video, in cui linee sinuose di pastello colorano mondi e orizzonti, nel mezzo dei quali un cavallo leggiadro corre, dando l’idea dell’infinito, ma anche dell’evoluzione che la Marling ha compiuto, ormai libera di lasciare sfogo alle sue emozioni senza perdere un grammo della sua classe. “It’s a short fucking movie, man”: a cosa si riferisce Laura? Al disco? Alla vita? Forse a tutti e due, tale è il grado di compenetrazione che ormai sussiste tra la sua musica e la vita vissuta. I continui viaggi in America non solo hanno lasciato vaghe tracce in un accento che non è più impeccabilmente british, ma hanno anche aperto nuove potenzialità espressive.
E così “False Hope” gioca in pieno terreno indie-rock, col suo travolgente vigore elettrico. Che ritorna in altri punti del disco, come nella bellissima “Gurdjeff’s Daughter”, dal sapore jazzato, cadenzata come uno dei classici dei Dire Straits (“Sultans Of Swing”? Può essere), o in “Don’t Let Me Bring You Down”, coi suoi scenari desertici, tutt’altro che radiosi, deflagranti in un bridge incendiario.
Laura gioca anche con nuovi timbri e stili vocali: in “Strange”, ad esempio, sopra un incalzante tappeto ritmico dal sapore tribale, tesse la sua narrazione recitandola, tra accelerazioni e pause enfatiche, e l’effetto è, appunto, straniante. Non mancano tenui brani che colpiscono al cuore con più semplicità, vedi la sospensione sognante nel ritornello di “Divine”, o la chitarra desolata di “Walk Alone”, candida confessione sul bisogno/difficoltà di amare, il cui languore trova eco nella conclusiva “Worship Me”. Nel mezzo, il gioiello folk “I Feel Your Love”, episodio più vicino al disco precedente, che trova nel contrasto tra incedere febbrile della chitarra e solennità degli archi il suo punto di forza.
A livello di testi, “Short Movie” è ancora una volta una dimostrazione dell’ottima scrittura di Laura, qui più diaristica e intima. Tra racconti on the road (l’incontro con uno sciamano hippie in California che ispira “Short Movie”) e storie ascoltate o lette da qualche parte (la conversazione tra la figlia di Gurdjeff e Jodorowsky in una stanza d’hotel che è alla base di “Gurdjeff’s Daughter”), Laura sfrutta la dimensione del viaggio per scoprire se stessa e la sua personalità. Da qui la scelta di non arricchire di troppi orpelli la produzione, questa volta curata da lei stessa. Il risultato, anche se non raggiunge la perfezione formale del suono di “Once I Was An Eagle”, è perfettamente coerente col mood generale dell’album.
Se Laura Marling è l’erede di Joni Mitchell, questo allora è il suo “Hejira”, disco sofferto, privato, ma anche vibrante, elettrico ed eclettico, ennesima dimostrazione della bravura di una artista le cui potenzialità sembrano davvero non avere limiti.
27/03/2015