Spires That In The Sunset Rise

Beasts In The Garden

2015 (alt-vinyl)
avant-folk, ambient-folk

Fa davvero specie come di quella che fino a pochi anni fa era una delle scene di punta dei circuiti indipendenti statunitensi al giorno d'oggi non sia praticamente rimasta traccia. Di quella New Weird America che nel corso dello scorso decennio aveva proposto un discreto numero di talenti a tenerne alti i vessilli, e reinventato le coordinate del folk d'avanguardia made in Usa, perlopiù non rimane che un vago ricordo, la testimonianza di un'epoca creativa sepolta in un passato che appare più lontano di quanto invece sarebbe realmente. A patto di essere stati appassionati del settore, viene un po' da chiedersi quale sia stata la fine di una simile temperie artistica, dove è scomparso tutto quel fervore che per dieci anni ha tirato fuori manifestazioni creative di tutto rispetto.
Per chi è riuscito stoicamente ad andare avanti, a non soccombere di fronte al cambio di gusti e interessi di pubblico e critica, la strada era una soltanto, e di certo non proprio delle più pervie. Reinventarsi e ripensare drasticamente il proprio operato, in definitiva: dopo più di un decennio di carriera (tra l'altro non spesa a ripetere ad oltranza lo stesso canovaccio), le fattucchiere Kathleen Baird e Taralie Paterson sono forse state chiamate a superare l'ostacolo più arduo del loro lungo connubio artistico. Un'impresa che avrebbe potuto costare molto cara, ma che le due Spires That In The Sunset Rise hanno saputo interpretare con una maestria da fuoriclasse e uno sviluppatissimo senso della sfida: quanto ne deriva riesce nell'intento di far quasi sembrare i precedenti lavori dei semplici banchi di prova.

Se la ricerca di un microcosmo arcano, popolato da presenze misteriose e descritto con tratti spartani (ma profondamente evocativi), è sempre stato un elemento di assoluta rilevanza nell'immaginario artistico delle incantatrici di Chicago, il nuovo “Beasts In The Garden” manifesta sin dalle premesse il tentativo di sublimazione di una poetica che ormai con le crespe superfici free-folk degli inizi condivide giusto lo spirito, la premessa ispiratrice. Con una produzione finalmente impeccabile e cristallina, e un parco sonoro dalle articolazioni sempre più metafisiche, i sette brani del disco trascendono la composizione terrena e materiale del suono, abbracciando così nella sua totalità le caratteristiche più incorporee, rituali, del loro sound. Scansioni ritmiche spesso prossime allo zero (qualora presenti, composte da qualche semplice percussione), e il pizzicare di chitarra del tutto accantonato, sacrificato a favore di una palette strumentale meno interessata alla trance psichedelica, portano il disco a operare essenzialmente di fiati e voce, in un approccio che esalta e privilegia la comunicazione spirituale, l'afflato intimo delle composizioni.

Decisamente meno ricollegabili all'universo espressivo di Christa Paffgen, dotate di un'autonomia espressiva ormai difficilmente criticabile, le linee vocali, tra falsetti estatici e più compunte declamazioni, diventano il fulcro motore dei brani, il pernio su cui fa cardine un comparto musicale azzardatissimo, che però mantiene intatte le bizzarrie melodiche delle due musiciste coinvolte. Con tutto che l'esperienza con le compagini più radicali del circuito free-jazz di Chicago è tangibile, che sassofono e flauto seguono i moti e l'istinto delle rispettive esecutrici, la forza dei pezzi sta proprio nel tenere un piede ben piantato nell'ambito della musica cantata, sviluppata e trattata con assoluta spregiudicatezza, anche quando sconfina nel campo della melodia. Ne deriva quindi un lirismo spesso sfilacciato e vaporoso, memore della lezione ancestrale di una Tara Burke ma con qualità ambientali notevolmente acuite (“White On White”, tra le sette quella più prossima ai recenti sommovimenti free esplorati dal duo), arrivando al punto di tracciare disarmanti immersioni subacquee, in un curioso schema di droni decompressi e improvvisazioni di flauto che lo rende quasi parte integrante del disegno strumentale (l'imponente “Bitchin (For Suma)”, vertigine sensoriale dell'intero lavoro).
Anche quando l'impianto armonico si fa meno posato (il tumultuoso risuonare di sax di “Schluss”, le pimpanti cadenze old-time di “Portabittaclog”, a sostegno di bizzarri interplay di fiati e stentoreo declamare vocale), il senso d'imminente minaccia, l'oscurità malcelata che da sempre ha fatto breccia nell'arte del duo qui appare come dissolta, sconfitta da una ventata di magia bianca che lascia affiorare l'elemento sacrale in tutta la sua purezza, finanche delicatezza. Pacifiche e mansuete, le bestie del giardino di Kathleen e Taralie chiariscono quindi la propria conversione in una title track nella quale la rarefazione espressiva raggiunge l'apice, esibendosi senza schermi in una piéce minimalista dall'imponente impatto bucolico, provvido di potenti significati panici.

Prive delle tetre filiazioni del passato, le Spires That In The Sunset Rise non cessano comunque di comunicare con il lato più recondito dell'essere, di toccare corde ai più realmente inaccessibili. Se possibile anzi, il loro contributo a questo dialogo pare essere stato ulteriormente accentuato, intensificato attraverso una mutazione stilistica che le due statunitensi sono riuscite a mostrare in tutta la sua lungimiranza. Passo dopo passo, l'epopea di queste due cuspidi avant-folk tiene ancora alto, seppur in forme del tutto difformi, lo spirito di un'epoca affascinante, ma ormai definitivamente tramontata.

02/11/2015

Tracklist

  1. Beasts In The Garden
  2. Schluss
  3. Bitchin (For Suma)
  4. Portabittaclog
  5. White On White
  6. Promised Land
  7. The Sun

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