I baci torridi del sole, l’alito di profumi floreali nelle caldi notti lusingate dalla brezza. L’estate è quel periodo dell’anno in cui senti che qualcosa di magico stia lì per accadere, poi la bella stagione passa e ogni volta non succede una beneamata mazza. Certe atmosfere sono ingannevoli, cariche di promesse mai mantenute, ciononostante la magia da esse aspersa va assolutamente preservata. Con la musica giusta.
Bill Ricchini, per esempio, viene da Philadelphia ed è trapiantato a Brooklyn, che non sono esattamente la solare e frizzante California che negli anni Sessanta fornì lo slancio vitale all’ascesa del magniloquente pop di
Beach Boys e Beau Brummels, modelli imprescindibili del suo
sound barocco ed “estivo”. Peraltro è in una delle città più grigie e depresse di tutto il Regno Unito - quel torvo covo industriale di nome Manchester - che il titolare della sigla Summer Fiction ha inciso dieci canzoni che paiono uscite da una cartolina dell’estate del ’67.
Masterizzato da Joe Lambert (già al lavoro con
Deerhunter e
Panda Bear) in un casolare ottocentesco sito nel nord della città e adibito a studio di registrazione, “Himalaya”, seconda fatica a nome Summer Fiction, segue il chiacchierato omonimo esordio del 2010.
Rispetto al lavoro precedente, però, la brillantezza melodica e la forbitezza degli arrangiamenti risultano solcate da un’ombra di intima malinconia, retaggio di lutti familiari e traversie personali a cui Ricchini ha dovuto far fronte negli ultimi due anni. Sicché la nostalgia, il sommesso riavvolgersi della memoria, l’animo che tasta i vuoti lasciati da desideri sfuggenti attraversano la seconda parte dell’album, aperta dal romantico ballo anni Cinquanta di “Genevieve” e proseguita da “Religion Of Mine” (folk-pop fibrillante di ansie millenariste), dal balletto
čajkovskijiano della sublime “Manchester” e dal carezzevole sussurro acustico di “By My Side”, che accartoccia armonie degne di
Paul Simon e le leva verso il cielo come fossero bolle piene d’amore.
Niente dunque è mai veramente triste nel
mood languido di queste canzoni, la depressione è un fantasma che non spaventerebbe un bambino. Sono solo i resti di un’incosciente allegria sfumata nella consapevolezza che il sole non può essere sempre lì, ma finché risplende perché mai non godersi i benefici dei suoi raggi? E allora il cuore del disco pulsa nell’abbacinante trittico d’apertura “On And On”, “Dirty Blonde” e “Prefume Paper”, con profluvi di chitarre
jangle, irresistibili ornamenti vocali di discendenza
surf, giri di basso occhieggianti gli
Zombies e l’orecchiabilità agghindata nella sua veste più elegante, come il Josh Rouse di “1972”.
L’estate è un film girato alla fine degli anni Sessanta e distribuito nelle sale domani.
03/07/2015