METAFIVE

META

2016 (Warner)
art-electro-pop

Prendete il meglio dell'elettronica giapponese, dagli anni 70 ad oggi. Quella capace di raggiungere un pubblico ampio, di utilizzare i linguaggi e schemi pop a suo uso e consumo, volendo quella che ha plasmato il corso della musica a venire, non soltanto di quella ristretta nei confini dell'arcipelago. Dopodiché, assoldate alla causa una delle voci più carismatiche attualmente in circolazione, e date infine al tutto una forma coesa, che possa permettere a un simile concentrato di classe ed esperienza di raggrupparsi attorno a un progetto comune e unitario. Il solito deludente supergruppo in cerca di facile chiacchiericcio? Nemmeno per idea. E pensare che le premesse su cui è sorto quest'ultimo puntavano verso tutt'altra direzione.
Fortunatamente, Yukihiro Takahashi, storico batterista e voce principale della Yellow Magic Orchestra, si è reso conto che sperperare un simile potenziale, limitandolo a suonare dal vivo fedelmente pezzi da lui composti trent'anni addietro, non era propriamente la mossa più accorta. Occorreva dare insomma un seguito, una testimonianza che ponesse tutto questo capitale creativo nelle condizioni di ideare qualcosa di totalmente suo, slegato dai fasti del passato e volto a ritagliarsi uno spazio tutto suo. Occorreva ufficializzare dal punto di vista discografico i METAFIVE insomma, e lanciare allo stesso tempo il migliore progetto di pop elettronico da anni a questa parte, in grado di suonare fresco e moderno pur con poche attinenze alla stretta contemporaneità, nazionale o internazionale che sia. Valeva la pena proseguire nell'idea, insomma.

Ad affiancare Takahashi in questa nuova avventura, che si spera ricca di soddisfazioni, nientemeno che molti dei suoi discepoli, che a loro modo hanno contribuito a tenere alto e reinterpretare il fasto di quelle innovazioni che la YMO contribuì a rendere popolari e cool. In ordine, abbiamo due tra i massimi campioni dello shibuya-kei, Towa Tei e Keigo Oyamada, ben più conosciuto con il nome di Cornelius, Yoshinori Sunahara, ex-membro dei Denki Groove, campioni assoluti del techno-pop anni 90, il polistrumentista Tomohiko Gondo, già collaboratore dell'artista veterano, e come membro più giovane, lo spigliato cantautore nippo-svedese Leo Imai, a prestare al progetto tutta la sua versatilità vocale. Una sfilata di nomi da acquolina in bocca, tenuta insieme da una sinergia e uno spirito cooperativo davvero rari in simili operazioni: senza divismi e manie di protagonismo, a emergere è un affiatamento che spinge ciascuno dei sei a mettere in risalto i propri tratti caratteristici, in una miscela che rende però impossibile ipotizzare attribuzioni univoche.
Il gusto per il contrappunto e la bizzarria compositiva dei due maestri shibuya-kei convive quindi senza alcun problema con l'immaginario urbano proprio della musica di Imai, a sua volta permeato dalle accortezze ritmiche di Sunahara e dall'estro esecutivo di Gondo; Takahashi, lungi dal puntare i riflettori su di sé, lascia che il suo tocco, futurista e nostalgico allo stesso tempo, si infiltri con delicatezza nei vari brani, sia che riguardi l'elemento vocale, sia che si rivolga al comparto strettamente musicale. Nonostante la realizzazione collettiva, non è di certo pesantezza quella che si respira all'interno del disco.

Sebbene non sia un tratto così inconsueto, a prendere in considerazione i circuiti pop giapponesi (d'altronde i Gesu No Kiwami Otome impartiscono una notevole lezione, in tal senso), stupisce ciononostante la levità, l'apparente facilità con cui i sei mettono in moto il loro meccanismo, che dal canto suo si esprime senza mascherare in alcun modo gli elementi di cui si avvale. E quindi, vai di funk elettrici, sincopati e dai testi schizoidi (“Don't Move”; azzeccata la scelta di affidarsi quasi esclusivamente alla lingua inglese, d'altronde Imai è ben lontano dal temibile engrish), aggiornamenti 3.0 del fu techno-pop marchio YMO (l'aria metropolitana, profondamente “giapponese”, con cui viene costruita “Luv U Tokio”), stramberie electro assortite (l'intricato pattern ritmico di “Gravetrippin'”, con le texture di chitarra e basso a rubare la scena, anche più della stessa controparte melodica).
Per ogni soluzione o spunto messo in campo, i METAFIVE hanno dalla loro sufficiente carattere e umiltà per non rimanere schiavi della loro stessa creatività, e saper allentare la morsa se è il caso. Il livello non scende comunque mai sotto una soglia di bontà che rende anche un ipotetico filler spanne superiore rispetto ai pezzi forti di tanti colleghi. Rispetto alla costruitissima e irritante finta-ingenuità di una Kyary Pamyu Pamyu, alla terribile prevedibilità nella scrittura che ha finito con il cogliere le Perfume, anche episodi apparentemente minori come “Maisie's Avenue” (che mostra notevoli affinità con il sofisticato electro-pop della desaparecida Immi) o la più sciolta “Anodyne”  presentano un savoir-faire e un'immediatezza che non scivola mai nella sciatteria a buon mercato.

Tra finti clavicembali a donare un pizzico di atemporalità all'album, prima che la composizione prenda tutt'altra traiettoria (“W.G.S.F”), motivi glitch a incastrarsi tra controsterzi ritmici di rara efficacia (il picco “Albore”), lounge-music a un passo dal sophisti-pop puro (“Whiteout”, ed è come sentire una versione soft-techno dei Coloma), “META” illustra in definitiva una visione autoriale, personalissima, di un filone che da tempo stentava a produrre opere di reale rilievo. Una gran bella soddisfazione, per artisti non propriamente di primo pelo. Lasciare che un disco del genere a questo punto rimanga un caso simile è un vero e proprio crimine.

02/03/2016

Tracklist

  1. Don't Move
  2. Luv U Tokio
  3. Maisie's Avenue
  4. Albore
  5. Gravetrippin'
  6. Anodyne
  7. Disaster Baby
  8. Radio (META version)
  9. W.G.S.F.
  10. Split Spirit (META version)
  11. Whiteout
  12. Threads


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