Se durante le vostre peregrinazioni attraverso i meandri della rete vi siete imbattuti in questo bizzarro moniker, tranquilli, è più che normale. Per fortuna o purtroppo, sta a ciascuno di voi deciderlo: il punto è che era da oltre un decennio che un progetto capace di scalare ogni classifica possibile e immaginabile in Giappone non arrivava a diffondersi con così ampia capillarità anche in Occidente, sfruttando una campagna di marketing che ha fatto della viralità il proprio principio cardine. Video coloratissimi e surreali, un'estetica audace che procedeva per antitesi e affastellamenti senza sosta, pezzi caramellosi e fieramente infantili, ritornelli tra i più tremendamente catchy in circolazione... Contravvenendo alla legge non scritta del music business del Sol Levante che quasi impone il ritiro entro i patrii confini, il progetto Kyary Pamyu Pamyu (nom de plume dietro al quale si nasconde la bizzarra figura dell'ancora giovanissima cantante e fashion-blogger Kiriko Takemura) ha fatto in brevissimo tempo il giro del mondo, conquistando larghe fette di un pubblico affamato di nuove sensazioni weird, ma anche di molti dei più irriducibili amanti di j-pop e dintorni.
Con esso, è arrivato puntuale il contratto negli States e la distribuzione occidentale, che se non raggiunge di certo cifre sbalorditive, ha comunque consolidato il nome della performer nipponica come personaggio da tenere d'occhio. Se infatti vi è un merito in quanto prodotto in questi anni da parte della signorina e del suo fitto entourage (con Yasutaka Nakata dei CAPSULE deus ex machina dell'intero progetto), vi è quello di aver spostato nuovamente il baricentro dell'interesse verso i discorsi pop del Giappone, in questi anni “succube” dello strapotere coreano alla materia. Per il resto, ogni altra qualifica positiva lascia il tempo che trova.
Il punto primario del fascino della Takemura consisteva infatti nella sua novelty, in una stravaganza che anche nel mondo tutto arcobaleni e unicorni delle idol finiva con l'occupare una nicchia tutta sua: un privilegio insomma che ben poche possono vantare. In questo senso, lo staff alla base della sua musica c'entra poco o niente: con quel suo strampalato senso dello stile, con quelle giustapposizioni tra kawaii e horror, quelle scenografie talmente assurde da oltrepassare il kitsch, era difficile che il suo personaggio finisse con il passare inosservato. Ben più semplice anzi che il discorso prendesse in men che non si dica la strada della sovraesposizione, che perlomeno in Giappone è puntualmente arrivata, all'altezza di un primo album che comunque si lasciava ascoltare.
Pur con parecchi scivoloni, e con un Nakata mai così frivolo nella scrittura e nella composizione, quel disco presentava infatti qualche bel momento di giocosità electro-pop, talvolta mitigata da aleggianti sentori shibuya-kei (è pur sempre del patron dei CAPSULE che si parla, no?), talaltra invece ispessita fino a rasentare la techno. Niente di trascendentale, ma nell'ambito del pacchetto con cui si presentava, tutto sommato si trattava di un onesto prodotto pop, rispettoso dei canoni (inclusa la voce infantile profondamente digitalizzata) e ben riconoscibile nel suo ambito di riferimento. Fintanto che la piega non lasciava supporre chissà quale continuazione, si riusciva insomma a godere dell'insieme.
I problemi, in definitiva, sono sorti realmente in seguito al primo album: fiutato il potenziale commerciale dell'operazione, senza il benché minimo interesse a scompigliare anche di poco le carte in tavola, i singoli e il disco che hanno seguito l'anno successivo non facevano che ripetere stancamente una formula che regalava ben poche possibilità di manovra. Il successo, neanche a dirlo, è arrivato puntualissimo. Cosa ci si poteva dunque aspettare da questo nuovo “Pika Pika Fantajin”, terzo lavoro in tre anni? Oggettivamente, molto molto poco.
Ed effettivamente, all'ascolto, le bassissime aspettative vengono confermate in tutto e per tutto: forse non verranno raggiunti i picchi in negativo della precedente raccolta, ma desta non poche perplessità quest'ostinazione a riproporre un canovaccio espressivo privo oramai del benché minimo stimolo, di un'allegria al caramello che ha cariato da tempo i denti. Cosa ci sarà mai di così clamoroso nell'ennesima iterazione di un refrain sconnesso, giocato su due parole due, quasi fosse una stanca filastrocca per bambini già ripetuta allo sfinimento (“Kira Kira Killer”)? E quale mai elemento di interesse potrà contenere il nuovo carillon technoide “do do pi do”, scarto di produzione che in tempi non sospetti nemmeno le Perfume avrebbero voluto nel proprio repertorio? Anche i giapponesi sembrano essersi resi conto che andare avanti su questa linea non porterà a niente di buono: le vendite si sono ridotte a un quarto di quelle dell'album precedente. Forse, sarebbe il caso che alle domande appena esposte si desse una risposta convincente quanto prima (e le voci su una possibile collaborazione con Yelle e Sophie danno pienamente credito all'esigenza di cambiamento).
Gli hipster di mezzo mondo potranno comunque trastullarsi sull'ennesimo saggio di colorata follia da parte della Takemura e corroborare la loro idea di un Giappone terra di ogni possibile stravaganza. Basta non fermarsi alle prime impressioni, per rendersi conto di quanto questa sia soltanto una delle tante possibili facce di un paese musicalmente ben più sfaccettato di quanto si immagini, anche soltanto in ambito pop.
01/10/2014