C'è poco da essere ottimisti. Si perdoni la battuta non certo brillante per originalità, ma il nuovo album degli Anathema, dopo alcune perplessità che lasciò il suo predecessore, non è certo di quelli che rimettono in pace con l'artista di turno.
La band di Liverpool, nota per la sua strabiliante metamorfosi tra origini doom-death metal, evoluzione space-rock e alternative fino a una sorta di neo-prog rarefatto ed edulcorato, è di quelle che ha sempre dato l'impressione di voler sconvolgere il proprio sound. Purtroppo, "The Optimist" si rivela alla fine quanto di più manieristico e pigro si potesse ricevere dai fratelli Cavanagh/Douglas.
Gli Anathema, per forza di cose, non hanno sempre accontentato tutti. Come conciliare la fan base che adorava la lacerante glacialità di "The Silent Enigma" o le tinte plumbee di "Judgement" con le atmosfere auliche e radiose che si avvicendano dal 2010, ovvero dall'ennesima svolta stilistica inaugurata con "We're Here Because We're Here"? Eppure la popolarità della band è andata sempre in crescendo, complice la genuinità di ogni nuova proposta, esplodendo al successo globale di "Weather Systems".
Ma a un certo punto - in quello che era l'ultimo episodio della discografia degli inglesi, "Distant Satellites" - qualcosa cominciò a non funzionare. Quel lavoro, forse gravato dalle pressioni dei consensi acquisiti, iniziò a mostrare per la prima volta soluzioni prevedibili e "comode", quasi a voler replicare con faciloneria l'efficacia melodica di una "Untouchable" a caso. Fu un disco a due facce, con una stanca e bolsa, l'altra a sorpresa piena di spunti interessanti: un pregevole inno rock ("Anathema"), le voglie elettroniche di John Douglas a portare freschezza ("Take Shelter", "You're Not Alone") e l'inaspettato capolavoro à-la John Hopkins "Distant Satellites" riuscivano a trasmettere fiducia sul futuro della band.
Purtroppo, gli Anathema scaricano oggi ogni velleità di crescita e si presentano con un lavoro svogliato e spento. Se il recente e graduale sbilanciamento delle composizioni verso un concetto di "pura emozionalità" aveva una sua coerenza - pur facendo storcere il naso a molti fan della produzione del secolo scorso - qui appare ormai forzato e accanito sui soliti cliché. Lo dimostrano brani come "Leaving It Behind", ridondante e artificiosa mentre si avviluppa su ritornelli e loop che vorrebbero ipnotizzare ma finiscono per annoiare. Così come "Endless Ways" si rifugia nei soliti crescendo, in quei wall of sound che un ascoltatore minimamente scafato può prevedere già un buon minuto prima, trattenendo a fatica lo sbadiglio.
A sorpresa Lee Douglas ottiene maggior spazio nella tracklist, a spese di un Vincent Cavanagh mai così in disparte. Tuttavia la sua splendida voce fallisce nel tentativo di dare vitalità alle composizioni, mortificata dagli ostinati mantra a cui è relegata per tutto il lavoro, tra vocalizzi e strofe ripetute allo sfinimento e senza molta convinzione, bruciando un'occasione molto interessante.
"Springfield", il brano scelto come singolo, è il punto più basso dell'opera, che riassume tristemente tutti i sopracitati difetti, svolgendosi fiacca ed elementare per tutti i suoi sei interminabili minuti: intro spenta, strofa banale, muro di suono telefonato e solita sfumatura finale. Il più prevedibile dei canovacci atto a generare una "Release" dei poveri; non a caso, visto che "The Optimist" vorrebbe rappresentare proprio il sequel di quel gustoso e remoto "A Fine Day To Exit" datato 2001.
Alcuni escamotage tuttavia continuano a funzionare: la title track offre una coda strumentale oggettivamente potente e struggente. "San Francisco" e "Wildfires" riescono finalmente a creare quell'ipnosi tipica del collettivo albionico, ricordando davvero per un istante il trip che sapeva innescare il presunto prequel di questo nuovo lavoro. Ma sono episodi isolati, diluiti con altri brani passabili ma innocui come "Can't Let Go" o l'episodio noir "Close Your Eyes".
Concludendo, "The Optimist" spazza via le speranze di chi accolse con entusiasmo alcuni esperimenti accennati in "Distant Satellites", aggiungendo praticamente nulla a una discografia altrimenti ricca e variopinta.
La sensazione è quella di una band che ha ormai esaurito il filone d'oro scoperto a inizio decennio, adagiandosi esausta sugli allori e completamente dedita alla grossolana riproposizione dei vecchi trucchi del mestiere. Il gorgo dell'involuzione stilistica, prima solo intuito, oggi risulta brutalmente in evidenza.
Se tutto ciò fosse frutto di una scelta lucida e ponderata, ci sarebbe davvero poco da essere ottimisti.
08/06/2017