"The Search For Everything" è uscito titubando, come un imbucato che entra a una festa per pochi intimi. Non che il settimo disco in studio di John Mayer non sia stato pubblicizzato, ma quando si è deciso di chiudere la scatola e di impacchettare il regalo, l'ascoltatore sapeva già cosa sarebbe andato a scartare. Il fascino dell'attesa e il gusto dell'abbuffata, per chi aveva già in cuffia i due Ep anticipatori - "Wave One" e "Wave Two" - si sono liquefatti lungo la strada. Per questi sarà stato difficile considerare l'album come un continuum e non come un mero insieme di tanti frammenti messi insieme uno con l'altro.
Marketing a parte, "The Search For Everything", alla fine, è uscito come un album normale, come un ordinario disco da tre quarti d'ora di musica. Dodici tracce e due anime saldate in una, un po' come quelle che hanno abitato John Mayer in tutta la sua carriera. "The Search For Everything" è per metà ammiccante e per metà introspettivo; ammiccante proprio come questa recensione, quando sceglie la parola continuum per creare un doppio senso che possa tracciare un filo invisibile che colleghi questo lavoro a quello più riuscito dell'intera carriera di Mayer (2006, per Columbia e Aware). Questo perché, in effetti, più di un collegamento con il bellissimo "Continuum" esiste. Esiste perché c'è il ritorno del Trio (Palladino, Mayer e Jordan); esiste perché c'è il blues - quello che in "Born And Raised" e "Paradise Valley" aveva lasciato il palcoscenico al roots e al folk di neilyoung-iana memoria.
"The Search For Everything" non è migliore di "Continuum" e nemmeno uguale, ma in questa fase del percorso artistico di John Mayer, strisciare i piedi su un solco già tracciato in passato - pur con un passo e una visione diversa - sembrava la cosa più naturale e ultronea che l'artista potesse fare. Ecco allora che in mezzo a "You're Gonna Live Forever In Me" e "I'm Gonna Find Another You" non sembrano essere passati dieci anni di esistenza, casomai soltanto una manciata d'istanti. "I'm never gonna find another you
/ Still like to leave the party early/ and go home, babe", canta all'inizio dell'album, in quel frullato alla fragola che è "Still Feel Like Your Man".
Eppure da quel lontano 2006 Mayer è cresciuto. Bene, perché ha acquisito qualche trucco del mestiere: il dosaggio degli interventi da chitarrista e la capacità di ottenere il massimo con il minimo sforzo ("Helpless", ad esempio, è di una semplicità imbarazzante, eppure è così diretta e pungente da non poter non sconquassare lo stomaco); male, perché la produzione, in più di un episodio, sembra una creatura creata in laboratorio, tanto è precisa, pulita e asettica: Scarlett Johansson venuta da un altro pianeta, un salotto pieno di mobili antichi o una luccicante macchina da corsa. "Love On The Weekend" - o "Split Screen Sadness" un decennio e mezzo dopo - per esempio, è un impasto di beat appiccicosi come la manina colorata nelle confezioni delle patatine ed è puntellata dal riverbero di un'elettrica che viene chiamata in causa con ragionate cadenze, come un esperto che in una conversazione è interpellato alla bisogna.
Artisticamente più aperto, Mayer sputa influenze musicali che nel corso degli anni ha deglutito per passione, per professione o per tutte e due le cose messe insieme. Il sound di "Moving On And Getting Over" - il peccaminoso bis per quelli che del frullato alla fragola non possono proprio farne a meno - spruzza un po' di Heat nell'aria e fa tornare in mente una frase che l'artista twittò nel 2013, poco dopo l'uscita dell'album di Beyoncé: "Ognuno può avere la propria opinione su 'Rocket', ma che abbia un suono incredibile è fuori discussione". Un po' di hip-hop gelatinoso costella dunque "The Search For Everything", ma anche un po' di Grateful Dead - questo era più che prevedibile - e di cool jazz - l'intro e la parentesi in slow motion di "Still Feel Like Your Man" sono come post-it gialli con su scritto "Mayer ha suonato con Chick Corea, John Scofield, Manolo Badrena, Wallace Roney, Chris Botti e Herbie Hancock".
Da artista che ha sempre parlato a tanti, il John Mayer di "The Search For Everything" non si smentisce; il consiglio più prezioso è quello di lasciare per strada ciò che non convince e di godersi il "buono" che c'è, anche se a volte i due aspetti sono racchiusi persino nella medesima essenza. Un titolo obbrobrioso e ammiccante come "Emoticon di un'onda", ad esempio, e quella sua splendida apertura melodica che racconta di una dissonanza che sta uccidendo l'animo di un uomo. Il cuore di lei è nel posto in cui dovrebbe essere la testa di lui, ma è soltanto un'onda, destinata a passare.
25/04/2017