Dimenticate le vedute soavi e stupefacenti delle galassie in movimento, il caleidoscopico technicolor di Kubrick e l’intero repertorio fantascientifico che conservate nella memoria. Lo spazio rimarrà sempre una realtà inospitale e inconoscibile che l’immaginazione umana ha tentato di edulcorare, poetizzare, forse per non fare i conti con la sua profonda e inquietante vastità.
Questo per dire che il secondo album solista di Håvard Volden, “Space Happy”, non somiglia in alcun modo alla meraviglia di un viaggio cosmico, quanto piuttosto a una trance che imita i processi generativi dell’oceano ignoto in cui galleggia il nostro piccolo pianeta.
Principalmente a suo agio con la ruvidezza della chitarra acustica, il norvegese già sodale di Jenny Hval in “Nude On Sand” e mente del progetto Moon Relay (a breve di ritorno su Hubro) si cimenta nella manipolazione elettronica di field recordings e suoni d’origine elettrica, creando loop ritmici ossessivi ed esplorando effettistiche allucinate per improvvisare nella maniera più sfuggente e imprevedibile di cui sia capace.
La seconda traccia fa subito pensare alle audaci innovazioni introdotte dal connazionale Stian Westerhus, primo richiamo a un neo-atavismo capace di incarnare l’angoscia dei tempi bui presenti. Fra i tremolo artificiali di “IV”, invece, è la Hval stessa a farsi voce di una solitudine interiore che echeggia nel vuoto. Brevi intermezzi accentuano la natura essenzialmente sperimentale del progetto, con più di un richiamo alle avanguardie storiche di Stockhausen e Cage (“V”) e arrivando quasi a solcare le odierne abrasioni industrial-noise (“VI”).
L’ultimo brano esteso (“VIII”) racchiude l’intera desolazione implicita al concept, tutt’altro che allegro sebbene forse “divertito” nella solitaria invenzione di un proprio strampalato sistema celeste. A riconferma di ciò si possono inquadrare le tre schegge finali, differenti avvisaglie di uno stoico ermetismo anti-espressivo tale da giungere, in ultima istanza, al completo rifiuto dei significanti in cinquanta secondi di silenzio (“XI”). Forse, dopotutto, lo “spazio” più misterioso e sconfinato è proprio quello della mente creativa.
08/10/2018