Quand’anche lo stadio conclusivo di una metamorfosi deludesse le aspettative, ciò che accade nel processo intermedio rimane qualcosa di misterioso e affascinante: è vero in natura come nell’arte, entrambe correnti perpetue e inarrestabili del cambiamento. Ed è tanto più vero nel percorso evolutivo della norvegese Jenny Hval, sperimentatrice e interprete realmente singolare, sinora mai adagiatasi nella comodità di uno stile pienamente formato e replicabile.
L’incubo in salsa B-movie “Blood Bitch” sembrava, all’apparenza, uno scivoloso approdo sul versante più inconsistente della Sacred Bones, tra le label maggiormente impegnate (ma anche qualitativamente discontinue) dell’attuale panorama dark. Ma il nuovo Ep “The Long Sleep”, a qualche mese da un nuovo duetto con Håvard Volden a nome Lost Girls (“Feeling”), dimostra che anche quella non era altro che una fase intermedia, sgomberando totalmente il campo in favore di un concept e di un’atmosfera che nulla hanno a che spartire col predecessore. Le tre tracce principali, infatti, sono intrise di spunti nuovi per Jenny, che sembra seguire l’esempio di Félicia Atkinson immergendosi gradualmente nel proprio subconscio, rielaborando gli stessi temi musicali e verbali in forme vieppiù sfilacciate.
Forse per la prima volta l’immaginario di Jenny non ci accoglie con toni sinistri o provocanti, bensì con una nuvola di fiati alla Bon Iver che introduce un singolo sorprendentemente leggero e spensierato (“Spells”), per molti versi vicino all'ultima veste pop di Julia Holter, e che annuncia l’imminente stato di sospensione della realtà entro la dimensione onirica (“You will not be awake for long/ You won't have to wait for long/ We'll meet in the smallest great unknown”).
L’inno si tramuta poi in una dolcissima ballata poggiata al pianoforte (Anja Lauvdal): attraverso la calzante metafora della palla da discoteca, questa rassicurante nenia riformula e nobilita il senso di inadeguatezza e il “contenere moltitudini” messo in poesia da Walt Whitman.
You might be in pieces
But let's call it something else
Let's say that you are your own disco-ball
It sounds better, more promising
It doesn't just sound like you're broken
But what breaks is the light that shines on you
La coda dello stesso brano funge da danza rituale atta a invocare il "lungo sonno" che le farà seguito, con la voce di Jenny che si sdoppia e distribuisce nello spazio acustico con effetto disorientante. Si è preparato il terreno per la lunga e inafferrabile title track: un liquido amniotico della mente percorso da ondate di sintetizzatori, dal soffio delicato di sax e tromba (Espen Reinertsen, Eivind Lønning) e un sottofondo di tabla indiane e altre ipnotiche percussioni in legno (Kyrre Laastad); un fiorente giardino ambient che, pur non aggiungendo granché al range espressivo della Hval, raggiunge l’obiettivo previsto nello sviluppo di questo breve ma evocativo capitolo discografico, che riserva un ultimo minuto a un messaggio personale dell’artista indirizzato all’ascoltatore.
There should be something I could tell you, there should be something I could say directly without lyrics and melody. [...]
It’s not in the product. It’s not in the algorithms. It’s not something you decided. It’s not something they decided for you.
I want to tell you something. I just want to say: Thank you. I love you.
È una dedica tanto semplice quanto sincera, che elude ogni considerazione artistica e concettuale per includere nell’opera il suo ignoto destinatario, colui che la rende possibile e viva attraverso l’ascolto. Nel quotidiano proliferare di nuova musica, uno spazio per Jenny Hval bisogna sempre trovarlo, e sapere che lei ve ne sarà realmente grata è ancora più appagante.
30/05/2018