Seguire passo passo un percorso di sperimentazione artistica offre un punto di vista critico privilegiato dal quale divengono chiare le fasi, gli elementi ricorrenti, gli spostamenti di segno e di senso che nel loro insieme formano uno stile individuale e ben riconoscibile. La linea di continuità tematica che attraversa la fitta produzione di Jenny Hval ne rende ancor più manifesta la graduale rarefazione degli aspetti prettamente musicali in favore di quelli concettuali, il trionfo dell’ego sull’estetica.
È facile credere che la transizione verso il roster Sacred Bones – casa madre di dark ladies quali Zola Jesus e Pharmakon – abbia permesso e anzi incoraggiato l'approdo a sfuggenti sonorità sintetiche, quasi un dettaglio di arredamento in relazione a una narrazione sempre più sconnessa e solipsistica, avviluppata nelle maglie di una sessualità esplicita e morbosa.
“Apocalypse, Girl” ha cautamente aperto il varco per quella che sinora rappresenta l’esplorazione più libera della performer norvegese: con “Blood Bitch” la già labile forma-canzone fa spazio a un’opera d’insieme incentrata sull’immagine del sangue mestruale, “la catena di carta igienica bianca e rossa che lega insieme le vergini, le puttane, le madri, le streghe, le sognatrici e le amanti” (sic). In termini più specifici, è anche il racconto parallelo di un vampiresco Orlando che viaggia nello spazio-tempo e di un’artista (la stessa Jenny) intrappolata nell’alienante giostra dei tour in giro per il mondo – e dunque succube della sua stessa vocazione.
Da sempre orientata alla crossmedialità, Hval mette più che mai a nudo le proprie ambizioni sconfinando quasi nella sound art: la scelta dei suoni di tastiera e gli effetti sonori smaccatamente vintage rievocano la tradizione perduta del radiodramma, esplicata nel torbido realismo di “Untamed Region”, in cui descrive con dovizia di particolari il ritrovamento, al risveglio, di una macchia di sangue sul suo letto, finendo col toccarla e assaggiarla (!); mentre in “The Plague” furoreggiano le grida distorte del vampiro nel mezzo di un sound design schizoide da film horror a budget ridotto.
Laddove non rimane quasi traccia dell'eclettismo raggiunto con “Innocence Is Kinky”, la preminenza spetta necessariamente ai testi e alla spoken word, ancora sintomatici di infiniti tormenti sull'identità, l’amore non corrisposto – una fenomenologia che oggi, dichiara, è soggiogata dal capitalismo – e quello platonico (Conceptual romance is on my mind/ I call it abstract romanticism).
Guidata da quell’istinto provocatorio che ha popolato le gallerie d'arte contemporanea dagli anni 70 ai giorni nostri, Jenny ha ormai abbattuto qualsiasi tabù in merito alla sfera sessuale: una liberazione che idealmente accomuna i pamphlet ultra-femministi di Valérie Solanas e la body art di Marina Abramovič e Regina José Galindo, elevando nuovamente la forza creatrice della vagina a monade assoluta (But come with me/ I want to show you something/ The origin of all/ The origin of the world).
Tutto ciò che da sempre distingue l’arte di Hval viene qui esplicitato ed esasperato oltre misura, assecondando una trasgressione che finisce col tradursi in tedioso conformismo, peraltro sacrificando – questo l’errore imperdonabile – tutta la ricchezza espressiva del suo estro vocale, ormai relegato alle più coraggiose collaborazioni d'area scandinava ("Nude On Sand", l'orchestra free folk targata Hubro).
Decisamente in ritardo giunge la consacrazione da parte della critica internazionale, che forse coincide con l’adozione di sonorità maggiormente avvezze al pubblico indie. Senza dubbio qualcosa d’altro rispetto alla Jenny Hval del glorioso periodo su Rune Grammofon, anni di autentico fervore durante i quali la Nostra ha realmente dato prova di un talento che oggi pare venga colpevolmente dato per scontato.
03/10/2016