Dall'esordio nel 2011 sino a oggi, con cadenza annuale, Jenny Hval riversa in forma artistica la propria intimità di persona e musicista: non si può che ammirare il suo coraggio, la strenua volontà di non tralasciare alcun dettaglio su ossessioni e perversioni, dando forma a un corpus che è assieme indagine e terapia del sé.
Sempre, insistentemente, il corpo e la voce. Ma stavolta, tra le pieghe di una narrazione sempre più coerente, si cela una crisi identitaria molto più profonda: al posto del metodo empirico – la ricerca dell'io spingendosi ai limiti fisici dell'espressione – l'artista sembra decisa a rallentare il processo, formulando domande chiare alle quali è necessario dare risposta, seppur provvisorie e per approssimazione.
Take care of youself, si raccomanda Jenny nel commiato a se stessa da giovane, in partenza dalla Norvegia natìa per trovare l'America. Ora ha 33 anni – “l'età di Gesù” – e pubblica il terzo album solista su Sacred Bones, ispirato e prodotto dall'illustre connazionale Lasse Marhaug. Think big, girl, like a king, think kingsize. Forse come artista non è già “arrivata”, ma pubblico e critica ormai sanno che vale la pena attenderla al varco. E ancora una volta Jenny inaugura uno stile specifico per l'attuale concept, dove le chitarre di “Innocence Is Kinky” vengono rimpiazzate da pervasivi sintetizzatori, dando forma al suo exploit più “pop”.
“Dicono che ora sono libera. Quella battaglia è finita. È finito il femminismo ed è finito il socialismo. Posso comprare ciò che voglio”. Non è però un'espressione liberatoria: è forse, a ben guardare, la più opprimente sinora concepita dalla songwriter. Le liriche e gli arrangiamenti dell'album sembrano stretti fra quattro mura, entro le quali i contributi di ospiti quali Thor Harris (percussionista degli Swans), il pianoforte di Øystein Moen (Jaga Jazzist) e l'arpa di Rhodri Davies appaiono come corpi estranei, fratture espressioniste in uno scenario altrimenti asettico, senza via d'uscita.
È la stessa atmosfera opprimente della Norvegia natìa, che ha inculcato nella piccola Jenny una visione fortemente moralista e religiosa della vita. Le voci sovraincise in “White Underground” sono infatti il preludio al riemergere di un paradiso fittizio nella sua mente (“Heaven”): osservando, dal fondo della chiesa, il coro che canta con devozione e a mani giunte (I separate from feeling/ Complex harmonic motion), Jenny sembra implorare il perdono per la mancanza di fede; rimasta ferma ai traumi del corpo adolescente – un altro sogno lucido la vede immedesimarsi in un ragazzino di fronte alla propria nudità – la Hval affronta un momento critico per la propria coscienza di persona adulta e non matura, agitandosi in un vuoto pneumatico che nel finale si popola di strumenti in sessione libera, e la voce distaccata risuona come quella di una Fursaxa trapiantata nell'era digitale.
I synth e le insistenti percussioni automatiche (con un occasionale sbocco nella dimensione orchestrale), unite alle tematiche sul filo che separa sacro e profano, creano l'associazione mentale con il nostro Battiato post-2000: con estrema incertezza, Jenny Hval si affaccia una volta di più sulla sua “finestra dentro”, giungendo a porsi un quesito cruciale: qual è il più profondo desiderio umano?
I said it before and I'll say it again/ I'm complex and intellectual/ but I will say: “Choose to be loved”
Il seguito non possiamo prevederlo: le mosse artistiche di Jenny non sono pianificate, esse semplicemente emergono in superficie per mezzo di lei; il risultato può soddisfarci o meno, ma di certo ci parla e non necessita di ulteriori spiegazioni. È questo il discrimine che separa l'arte da tutto il resto.
07/06/2015