The voice is a second flesh that cannot be seen.
This body is not for vision,
The seer cannot go there
Ci sono artisti che fanno del loro operato non soltanto un veicolo espressivo, ma un vero e proprio strumento di autoanalisi, come una sonda che man mano possa loro rivelare i propri limiti fisici, cognitivi e creativi. Anche per questo Jenny Hval si sta configurando come una nuova Meredith Monk, infaticabile tanto nei suoi esperimenti vocali quanto nello scavare i disagevoli labirinti della propria psiche, sempre più incurante di un possibile incontro col gusto altrui.
Dopo il folgorante “Viscera” e il duo “Nude On Sand” con Håvard Volden, la cantante, scrittrice e sound-artist norvegese esorcizza in autonomia i propri incubi sessuali, ispirata dalla sua stessa installazione sonora, uno studio sul volto femminile sullo schermo, dalla dreyeriana Giovanna d'Arco a Sasha Grey e Paris Hilton.
Il primo brano – che, citando un noto disco degli Einstürzende Neubauten, dà il titolo all'intera opera – fa subito pensare a una svolta più diretta e spigolosa, e in effetti parte del disco sfrutta una strumentazione rock piuttosto convenzionale – chitarra, batteria, tastiere. Ma ascoltando con attenzione notiamo subito che la forma-canzone è in qualche modo viziata, si regge quasi sempre su microtemi ripetuti senza sosta: la stordente nenia di “Mephisto In The Water” ne è l'esempio principe, col refrain iniziale che va prosciugandosi minuto dopo minuto, mentre Jenny tenta ancora di spingersi oltre la propria fisicità, con acuti crescenti sino a diventare innaturali.
Similarmente, appena conclusa un'introduzione più orecchiabile, torniamo a immergerci nei torbidi anfratti del subconscio (“Renée Falconetti of Orléans”), dove a dominare è un semplice battito continuo, che da ultimo si annebbia e fa spazio a una disagevole oscurità. La Hval modula con destrezza i toni della sua voce dal seducente allo stridulo, riportando in superficie residui distorti della memoria, trascritti in musica come frammenti più sperimentali e isolazionisti (“Oslo Oedipus”, “Give Me That Sound”), sospesi tra dark ambient e puntillismo noise.
Musicalmente, in “Innocence Is Kinky” c'è più carne al fuoco rispetto ai lavori precedenti: in certi momenti, specie i più ritmati (“I Got No Strings”), esso sembra dare nuovo smalto alla no-wave dei Liars, mentre “Death Of The Author” ha l'essenzialità, poi la quieta ferocia, dei quadri urbani dei nostri Massimo Volume. Tanti spunti difficili da comprendere e assimilare, probabilmente anche da apprezzare. Succede quando si decide di viaggiare con così tanta libertà nel proprio essere, senza pudori e reticenze, anche a costo di una (inevitabile) minor coesione tra i vari episodi.
Resta la distinta percezione dell'aprirsi di una nuova strada nel songwriting ampiamente inteso, un'alternativa difficile e sconnessa ma forte di una coscienza di sé in continuo sviluppo, di una densa ricerca interiore oltreché artistica.
Where do I end?
23/04/2013