Queste sette tracce (compresa la delicata elegia del brano bonus “Bang Bang”, declinata appena un attimo prima che la morte chiuda definitivamente il sipario) costituiscono, infatti, microcosmi di malvagità che fanno leva su un minimalismo più esibito e su trucchi del mestiere a volte fin troppo scontati. Un passo indietro che si tramuta, quindi, in un aggiustamento del tiro e in una maggiore cura per i dettagli che non riescono, ahinoi!, a produrre momenti indimenticabili.
Le emozioni della Chardiet sono sempre portate al limite. Ma si tratta, in ogni caso, di emozioni che riflettono l’instabilità di un’anima il cui “respiro” – lo stesso che domina il preludio di “Vacuum” – sembra aver mitigato buona parte del proprio demoniaco impatto.
Le viscere sono, come da copertina, esibite (e la voce che urla un’angoscia senza fine non fa altro che ribadire il concetto con la forza di un’interiorità devastata), ma la forma primitivista di “Body Betrays Itself”, della metallurgia house di “Autoimmune” o, ancora, della lenta discesa negli inferi della title track nasconde sostanzialmente una mancanza di idee, quasi che la convalescenza post-operatoria avesse allungato la sua ombra anche sulla musica dell'artista newyorkese, risolvendola in una pausa di riflessione appena scossa da fantasmi neanche tanto minacciosi.
Per offrirci qualcosa di veramente potente, la Chardiet dovrebbe trasformare la “primitive struggle” (quella tra corpo e mente) in un coacervo di tensioni armoniche, invece di propinarcela sotto forma di semplici conflitti tra sputi, urla, conati di vomito, ritmiche circolari o schianti armonici.
(16/10/2014)