Julia Holter

Julia Holter

Esoterismo art-pop

Julia Holter, la ragazza temeraria che abbandonò gli studi di composizione all’università del Michigan per le strutture troppo ortodosse di insegnamento, l’appassionata lettrice di tragedia greca, illuminata sulla via del minimalismo di John Cage e delle infinite possibilità armoniche della musica contemporanea. Un'anomala cantautrice abile nel corteggiare le strutture della musica pop senza restarne prigioniera, oggi autrice di un art-rock-pop tra i più originali e avvincenti

di Gianfranco Marmoro, Francesco Nunziata

Anomalo, più che difficile, esplorare il complesso archetipo sonoro che Julia Holter offre alla nostra percezione, più che uno stile un'attitudine, una forma mentis che ospita la musica sperimentale come punto di partenza, per una elaborazione più vasta e complessa. Autorevole esempio di indipendenza stilistica degli ultimi anni, la compositrice californiana coniuga con disinvoltura un raffinato approccio avantgarde con una sensibilità pop, sviluppatasi in particolare nelle sue ultime prove. È lei la ragazza temeraria che abbandonò gli studi di composizione all’università del Michigan per le strutture troppo ortodosse di insegnamento; è lei, l’appassionata lettrice di tragedia greca, illuminata sulla via del minimalismo di John Cage e delle infinite possibilità armoniche della musica contemporanea. Oggi, è pronta a entrare senza paura nella caotica società del gossip artistico, appena frastornata dagli sguardi indagatori degli avventori. E garantisce che non si farà intimorire dal successo e non diventerà mai pazza come Justin Bieber.

Playing in LA

Nata a Los Angeles il 18 dicembre 1984, Julia studia pianoforte già a otto anni, nella scuola dove apprende anche le tecniche e le strutture della musica classica. Questo le permette di sviluppare una maggiore attenzione all’orchestrazione che tradurrà presto nelle sue composizioni, spesso molto ricche di dettagli. La musica, del resto, è un’attitudine familiare: suo padre ha suonato anche dal vivo con Pete Seeger ed è cresciuta ascoltando Steely Dan, Travelling Wilburys, Bob Dylan e Billie Holiday, anche se racconterà che il suo primo idolo era stato Bryan Ferry e che era rimasta affascinata dal lato weird della musica dei Beatles. Le sue prime registrazioni vengono sottoposte al vaglio del Californian Institute of Arts, finanziato dalla Walt Disney. Questa esperienza le permette di entrare in contatto con l’elettronica e le nuove tecnologie musicali, non ama molto la composizione percependone la struttura limitante per una forma d’arte creativa. Nel frattempo sviluppa un intuito lirico che sta in bilico tra l’accademico e l’esoterico. Produzione e missaggio sono completamente nelle sue mani.

Julia HolterFiniti gli studi, Julia si dedica all’insegnamento con una particolare attenzione ai bambini disagiati. La sua esperienza di tutor (una specie di insegnante di sostegno) è ricca di stimoli, le idee dei ragazzi sono fresche e innovative, e contribuiscono a forgiare il suo immaginario. La sua musica è piena di riferimenti letterari, ma la Holter non vuole enfatizzare questo aspetto, non ritenendo indispensabile che l’ascoltatore sia consapevole dell’origine dei testi. I suoi successivi lavori mostreranno anche un approccio mutevole alle liriche, che in Tragedy formano una storia ben definita, mentre in Ekstasis – basato su un testo di Euripide – sono solo un pretesto per un complesso di storie più slegato e autonomo, e non a caso, visto che i brani sono stati registrati in un lasso di tempo molto ampio (4 anni).
È Stephen J. Rush, docente dell'Università digital music ensemble, a introdurla alle sonorità minimaliste di John Cage, che la Holter coltiva sposandole a una passione particolare per i field recordings. Da questo background nasce il suo primo progetto, "Cookbook", una performance su un pezzo di John Cage “Circus On”. Il luogo scelto è una chiesa del 1920 trasformata in club, dove la Holter realizza molte incisioni sul campo, con dialoghi e suoni tesi a ricreare l’atmosfera dell’opera di Cage. "Cookbook" è basato su un mesostico (secondo Wikipedia, una variante dell'acrostico, in cui, a differenza di quest'ultimo, sono le lettere o le sillabe o le parole centrali di ciascun verso, e non quelle iniziali, a formare un nome o una frase) che prende forma dalla lettura di un libro di cucina. Ogni gesto è accompagnato da un suono che coincide con l’oggetto o l’azione descritta dal recitato, il progetto di Cage lascia molti spazi aperti alla libertà dell’interprete.
Nel frattempo, stimolata dal mistero e dal fascino di Los Angeles, la Holter frequenta una galleria d’arte (The Wolf) dove si creano strane collaborazioni tra artisti. Con Ramona dei Nite Jewel, in particolare, allestisce alcune interessanti performance. Ma mentre tutti guardano al futuro, lei rivolge l'attenzione al un universo letterario antico: quello della tragedia greca.

Euripide in salsa avant-pop

Julia HolterDopo un paio di progetti sperimentali (la performance dal vivo Live Recordings e l'Ep Celebration), Julia Holter debutta sulla lunga distanza con le sei rivelazioni trascendentali di Tragedy, sorta di concept-album ispirato alla tragedia “Ippolito” di Euripide, in cui il grande drammaturgo dell’antichità metteva in scena un dramma amoroso. Opera ambiziosa ma mai pretenziosa, in cui gran parte delle liriche arriva direttamente dal testo euripideo (utilizzato secondo una logica non cronologica ma “sonora”), il disco è inaugurato da una “Introduction” che funge da evocazione inquieta di un dolore primordiale (in un’atmosfera nebbiosa, si materializzano, in successione, il richiamo di un corno, il suono di una sirena, il canto di una soprano, il rumore di un registratore a cassetta e il mugolio della stessa Holter).
L'essenza intorno cui ruota tutto il lavoro è l'idea di un avant-pop onirico ed esoterico, basato sulla stratificazione o sulla contrapposizione di tecniche diverse. Gli umori umbratili persistono anche durante il primo minuto di “Try To Make Yourself A Work Of Art”, destinato a trasformarsi in un cerimoniala marziale dove la voce filtrata è accostata a lugubri sbuffi fiatistici, masse fantasmatiche e un trillare metallico. Elementi di una scena (non solo mentale) che svaniscono improvvisamente, lasciandosi inghiottire da un buco nero brulicante di mistero. Più che inquietudine, però, quest’ultimo partorisce uno smisurato desiderio di protezione, per cui “The Falling Age” vira verso un’ipotesi di ballata malinconica delle sfere celesti, trasfigurata, attraverso una lenta e graduale modulazione, in un vortice dronico che lascia risuonare sullo sfondo schegge levigate di archi (a cura dell’ensemble CalArts New Century Players) e di piano.
Lo “spettro” vocale di Laurie Anderson (quello di “O Superman”, per intenderci) culla il synth-pop ipnotico di “Goddess Eye”, un brano sostanzialmente più “riconoscibile”, soprattutto se paragonato agli ultimi tre pannelli dell’opera. Dapprima, una “Celebration” in cui il grado di astrazione collagistico della “Introduction” viene approfondito e perfezionato, lasciando correre sul nastro echi di modern-classical e dream-pop, sussulti di drum-machine, rintocchi pianistici e languide tessiture di sax (Casey Anderson). Poi, una “Lillies” che apre in mood caotico-metropolitano e muta in una cantilena singhiozzante propulsa da un battito kraftwerk-iano. Dunque, un toccante “Finale”, in cui il suo bisbiglio si trasforma nella sorgente ultima di un corale sovrannaturale, ultimo avamposto di un’avventura musicale assolutamente intrigante.

Una nuova forma di estasi

Julia HolterRinfrancata dalle attenzioni della critica, la Holter si accinge all'opera seconda abbracciando con passione la formula dei mantra, l'artista esplora l'energia della modulazione vocale senza cenni al divino, producendo una nuova forma di estasi: Ekstasis (2013). 
La cantautrice californiana prosegue nella sua ricerca di suggestioni culturali del mondo greco che già ispiravano l'esordio, proiettandole tra world music multietnica (Africa, India e vecchia Europa) con field recordings e percussioni più precise di un metronomo. Solide e ben strutturate, le stratificate e complesse creazioni armoniche incrociano musica neoclassica a languidi drone vocali con elementi di pop sfuggenti alla logica della progressione di note con refrain e pause in levare.
Ekstasis prende per mano l'ascoltatore conducendolo dentro un'orchestra di synth, tra mura del suono attraversate da grida dal tono angelico. Tutto sembra scorrere senza una precisa identità di stile, il piano picchia dolcemente come la pioggia sull'acqua e la musica diventa eterea per un puro gioco di illusione sonora.  La Holter incastra tasselli di sonorità che la mente percepisce come note. A tratti sembra di ascoltare Jon Anderson e il suo "Olias Of Sunhillow", in "Four Gardens", e le linee armoniche di "Holiday" dei Bee Gees suggestionano le atmosfere sospese di "Moni Mon Amie", e non è raro incrociare musica celtica e intuizioni avantgarde alla Laurie Anderson.
C'è musica psichedelica immersa in drappeggi vocali in "Our Sorrows", ma anche un malinconico blues in "Boy In The Moon", dove Julia cala la voce di un registro per esplorare il lato oscuro della sofferenza cosmica. Ma la vera apoteosi viene celebrata in "In The Same Room", che navigando per tre minuti su prevedibili beat elettronici e contagiosi effluvi pop, si libera nel finale con fulminei landscape sonori. "Marienbad", tra suoni di Fender Rholdes e clavicembalo, intreccia le geometrie folk di Linda Perhacs con l'avantgarde di Arthur Russell, mentre le pagine più ardue e cerebrali di "Goddess Eyes I e II" evitano l'autocompiacimento intellettuale.  E' musica suggestivamente carsica, i vuoti armonici offrono libertà alla fantasia, mentre l'eclettismo bussa alla porta con i variegati colori di "Four Gardens". Qui gli strumenti si moltiplicano senza perdere il tocco etereo e sognante che altrove furoreggia, il sax sembra violentare per un attimo la calma apparente per poi condurre l'ascoltatore nella pagina più ricca e festosa dell'album.
Ekstasis è una proiezione sonora che trascende gli elementi di base e crea un nuovo archetipo di musica esoterica.

Gigì nella metropoli

Julia HolterTra le intriganti bedroom song del caleidoscopico Tragedy e le trascendentali elaborazioni sonore di Ekstasis, si era manifestato senza incertezze il luminoso talento della musicista americana, ma quello che non era ancora palese era la sua ambizione. Al terzo capitolo discografico intitolato Loud City Song (2013), la Holter abbandona la struttura esoterica per intraprendere il primo viaggio fuori dal mondo dell’avant-garde lo-fi, senza timori attraversa con sicurezza il fragile mondo del pop. Pur consapevole di aver intrapreso una rivoluzione sonora che offre molti rischi, la Holter procede senza farsi intimidire dai fiati strepitanti e dalle pause inquietanti che trovano identità sonora in “Maxim’s II”. La bellezza ha sposato l’immaginazione, il mistero è diventato accessibile, la varietà si è impossessata dei malinconici landscape per farli divenire piccole sinfonie.
Pur frammentando maggiormente le linee armoniche, spontaneità e candore non si eclissano, i personaggi del musical post-moderno di Loud City Song si muovono senza sforzo apparente nel fantastico mondo di questo affascinante racconto. Fiati vigorosi, percussioni ricche di upbeat, orchestrazioni sfavillanti tratteggiano l’intimità dei paesaggi sonori, rendendoli più urbani e meno pastorali. Le prime note di “World” sembrano catturare in un attimo tutto il fascino pittorico di Robert Wyatt, ogni parola è un sospiro mentre l’orchestra e i fiati giocano con sparute e sapienti note di un’incompiuta sinfonia, è la parafrasi del sogno che ritorna in “This Is A True Heart”, altra pagina delicata che restituisce dolcezza al progetto. La voce della Holter non è mai stata così evidente e limpida, una forza che le permette di dominare il romanticismo esuberante di “Maxim’s I” prima che il caos delle trombe e dei passi introduca terrore e estasi con la spettrale e mesmerica “Horns Surrounding Me” che mette insieme Kate Bush e Siouxsie Sioux.
La sceneggiatura più organica e letteraria dell'album offre spazio a incursioni jazz più vigorose e definite, il folk-jazz di “In The Green Wild”, in bilico tra cabaret e post-moderno, è una di quelle delizie che può esser vestita in mille modi senza perdere smalto, ma c'è anche l’etereo soul di “Hello Stranger”, grande successo di Barbara Lewis del 1963, che Julia trasforma in una complessa sinfonia suadente e poetica, prima di approdare all'intenso finale di “City Appearing”.
Ricco di metafore e simboli l’album-racconto della Holter è per molti versi simile alla splendida riduzione teatrale-musicale di "Moby Dick" realizzata da Laurie Anderson, con la quale Julia condivide molte attitudini e ambizioni artistiche: il disco è infatti ispirato a "Gigì", il romanzo breve del 1942 della scrittrice Colette, portato prima in teatro da un esordiente Audrey Hepburn nel 1951 e poi sul grande schermo da Vincent Minelli nel 1958).
Raffinato, vibrante, selvaggio e suggestivo in modo inedito e moderno, Loud City Song è un trionfo artistico che non può lasciare indifferenti.

La musica della compositrice di Los Angeles è diventata ormai un linguaggio totale, grazie a una struttura che viola i segreti armonici di John Cage per poi lasciarli liberi, che ripristina il tono metafisico con una coralità strumentale che nelle sue opere precedenti era solo accennata. Un angolo surreale dove Gigì rivive l’angoscia del successo e trova conforto nel valore morale della bellezza e della purezza dei sentimenti.

Il suono come linguaggio
 
In questa continua evoluzione verso la canzone e la celebrazione esoterica del suono, nasce l’album più diretto, dove il songwriting e la dimensione pop sono la nuova sfida. Have You In My Wilderness (2015) è un album a tema, dove è la musica il vero trait d'union, la voce il primo elemento che si staglia con inedite sfumature timbriche, non più celata dietro la coltre dei raffinati ed elaborati suoni, ma orgogliosamente in evidenza in un equilibrio con il tessuto strumentale che per la prima volta assottiglia le distanze con il mondo del cantautorato.
La produzione di Cole M. Grief-Neill è moderna ed essenziale, più vicina alle trascendenze liriche di Ekstasis, tutto il superfluo è stato eroso e abbandonato per far sgorgare un suono apparentemente limpido, ma elaborato e sviluppato fino all’ossessione e allo sfinimento.
Le prime note sono spiazzanti, Holter emula Judee Sill in “Feel You”, ma mistero e ambiguità sono sempre in agguato dietro le piacevoli linee liriche. Come Laurie Anderson, la Holter trascina armonie colte nelle braccia della musica popolare, assonanza non solo musicale ma perfino lirica quella che evoca in “Silhouette”, dove il “Language is a virus” di Anderson-iana memoria diventa “Language is a play” quasi a sottolineare una sottile evoluzione del contagio tra arte, letteratura e musica.
Ancora una volta un racconto di Colette dona spunto a fughe sonore evanescenti e visionarie, l’intrigante ibridazione sonora tra cristalli usati come percussioni e monologhi che diventano quasi un sottofondo ambient fanno di “Lucette Stranded On The Island” una delle tracce più amabili del disco. Holter si spinge oltre i limiti della passionalità in “Betsy On The Roof”, che in un album di Kate Bush suonerebbe come un momento di relax emotivo, e che invece nel rarefatto e algido pop della Holter pare quasi un imprevisto, mentre drone ed elementi gothic s riprendono per il bavero quell’esistenzialismo sonoro che Nico rese arte in “How Long?”: qui l’orchestra scorre solenne come una mini-suite di Henryk Gorecki, mentre il canto si divide tra la solitudine e l’assenza.

L’eleganza sembra essere il suo nuovo archetipo sonoro: le atmosfere parigine di “Everytime Boots” e l’immersione nel surf di “Sea Calls Me Home” hanno lo stesso respiro della melodia senza tempo della title track e della superba “Vasquez”, uno dei vertici assoluti della sua carriera dove l’avanguardia si colora di neoclassica, kraut-rock, jazz e strutture vocali fonetiche alla Robert Ashley.
Con Have You In My Wilderness la Holter riporta l’arte pop tra le braccia dei suoi destinatari finali, ovvero il pubblico, celebrandone la bellezza e la purezza.

Archiviato il notevole consenso critico dell'ultimo album, Julia Holter si ripresenta al pubblico con In The Same Room, un disco facente parte di un progetto più ampio della Domino, che intende pubblicare una serie di album-concerto, registrati con i migliori standard tecnici. L’album testimonia l’evoluzione dell’artista americana, passata dalle atmosfere esoteriche e avantgarde degli esordi alle intriganti miniature pop degli ultimi due capitoli discografici.
Con un'insolita line-up (viola, tastiere, basso e batteria) la musicista di Los Angeles reinventa alcuni elementi del suo repertorio, realizzando una prevedibile e a tratti leggermente asettica semplificazione delle articolate tessiture strumentali. Inutile discernere o sottolineare le eventuali differenze tra le versioni in studio e quelle dal vivo, più interessante notare come il repertorio abbia una sua peculiarità artistica, nonostante sia in parte smarrita l’attitudine sperimentale degli elaborati arrangiamenti originali.
Julia Holter approfitta dell’occasione per raffinare le proprie doti d’interprete, puntando altresì su arrangiamenti minimali e vellutati. Pur prive di molte sfumature timbriche, le canzoni non sembrano perdere la loro forza lirica intrinseca, il folk-jazz di “In The Green Wild” si trasforma in una poetica ballata noir, mentre “Betsy On The Roof” e “So Lillies” sembrano scambiarsi la loro collocazione temporale con risultati deliziosi. Strano a dirsi, ma è proprio la resa live dei brani tratti da Have You In My Wilderness che lascia a volte perplessi, forse per colpa della scelta di registrare l’album in diretta in studio (i famosi Rak Studios) senza la partecipazione di un vero pubblico.
Alfine il tono a volte mesto di In The Same Room, pur risultando vincente e convincente, costringe l’ascoltatore ad una veloce e indolore archiviazione, lasciandolo in trepidante attesa di un’ulteriore  conferma delle sublimi intuizioni che hanno finora contraddistinto la discografia della musicista americana.

Nel 2017 intanto Tragedy è stato anche trascritto come opera teatrale multimediale, "Tragedy" (2017), in collaborazione con Yelena Zhelezov e Zoe Aja Moore, oltre al collettivo Wild Up.

Giunto dopo un lungo periodo di riflessione, infranto da un'altra delle sue gemme, "Visions" (tocco di classe di psichedelia al femminile, un inno moderno sinceramente onirico), presente nell'album di Linda Perhacs "I'm A Harmony" (2017), Aviary è il frutto di una promessa mantenuta: “Non significa che farò musica che suonerà di nuovo così".
Holter ritorna sul luogo originario del delitto, immergendo le pulsioni art-rock nelle primigenie attitudini sperimentali degli esordi, lo fa prendendo spunto da uno scritto della famosa artista libanese-americana Etel Adnan: mi sono trovata in una voliera piena di uccelli urlanti.
Quali paure ancestrali e quali soluzioni Julia offra al pubblico non è dato saperlo, non perché l’artista si rifiuti di dare risposte, ma perché Aviary è l’album del caos, della confusione culturale, è infatti la stessa Holter a descrivere le sonorità come "cacofonia della mente in un mondo in liquefazione".
In perenne bilico tra introspezione ed estrinsecazione la musica sembra quasi prendersi gioco di se stessa, inseguendo raramente forme definite, quasi tutte le tracce sono infatti nate da improvvisazioni registrate in solitudine nell’arco di due anni (2017-2018), e poi incapsulate in sonorità apparentemente disparate, e invece frutto delle più recenti passioni musicali dell’artista: la musica medievale e Alice Coltrane.
Più che un semplice brano d’apertura “Turn The Light On” è la celebrazione della ritualità della figurazione artistica contemporanea: concerto rock, balletto, teatro e musica classica si confondono nel caos di strumenti e suoni, graffiati dal canto liberatorio della Holter. Ed è questa la costante minaccia che aleggia sulle quindici tracce: quindici tasselli non privi di sbavature ed errori, perché la vita stessa è una sequenza di conquiste e sconfitte, di gioie e paure.E’ la coerenza narrativa più che quella musicale l’obiettivo di Aviary.Anche i testi sono vittima della stessa sindrome caotica, tra elaborati recuperati in annotazioni dimenticate, pensieri estatici, e frasi estrapolate da poesie etniche e scritti medievali.
Musicalmente l'album può essere semplificato in un allucinante e caotico mix di Robert Wyatt, Kate Bush era “Aerial”, Laurie Anderson e Alice Coltrane, ne scaturisce una spiritualità talmente intensa da rendere superfluo qualsiasi confronto. Diviso in due parti, l’album alterna vivacità e languore tra visioni apocalittiche (il riscaldamento globale in “Whether” e i virus in agguato nei ghiacci polari in via di scioglimento in “Les Jeux To You”) e oasi di meditazione (“Voce Simul” e “Another Dream”) che restano intrappolate tra solitudine e disperazione.
Difficile se non impossibile non scorgere tra le tracce almeno tre o quattro future-classic dell’artista: la digressione avant-funk di “Underneath The Moon” (una “Sign Of The Times” post-futurista), la travolgente cascata di lirismo di “Word I Heard”, la geniale trasgressione classico-medievale dell’ambiziosa “Chaitus”, la solennità oscura e inquieta della conclusiva “Why Sad Songs”.

Cosa resta: una serie di affascinanti landscape sonori e vocali che ad ogni ascolto mostrano sfumature e preziosismi sonori di rara arguzia, “Another Dream”, “Colligere”, “In Gardens’ Muteness”, “I Would Rather See”: figli spuri delle stesse intuizioni che spinsero i Cocteau Twins tra le braccia di Harold Budd.
E’ sempre il concetto di bellezza il fine ultimo delle composizioni, che siano esse stridenti o trascendentali non c’è alcuna differenza, se non quella percepita e banalmente archiviata come sperimentale. Non c’è in verità nulla di rivoluzionario o innovativo in Aviary, la natura imprevedibile delle composizioni nasce dalla volontà di descrivere il caos, argomento che difficilmente si può affidare alla forma canzone. A rendere appassionante il progetto è la scelta di Julia Holter di percorrere lo stesso sentiero con la stessa intensità e con lo stesso margine d’errore di illustri predecessori, Laurie AndersonKate BushScott WalkerRobert Wyatt, Sun Ra, Joanna Newsom, consegnando al pubblico una materia viva, tangibile e come direbbe Warhol, pop, nonostante la natura non proprio popolare di questi oltre novanta minuti di caos e armonia.

Gli anni che seguono la pubblicazione di Aviary sono particolarmente complessi per Julia Holter, continui problemi di salute di alcuni membri della band nonché personali (per un periodo Julia non ha potuto cantare), scompaginano la routine produttiva, nel frattempo la prevedibile stasi creativa causata dalla pandemia induce l'artista ad una profonda riflessione sul proprio ruolo di musicista.
Per fortuna sono anche gli anni della consolidazione del rapporto sentimentale con Tashi Wada e della gioia della maternità, per Julia Holter è anche la possibilità di lasciarsi alle spalle la burrascosa relazione con Matt Mondaline (Real Estate, Ducktails), conclusasi anni prima con una denuncia nei confronti dell'ex per minacce e violenza : l'artista ha dichiarato di avere avuto paura per la propria vita.

La pubblicazione di Something In The Room She Moves rompe sei anni di silenzio discografico (unica eccezione la colonna sonora del film Never Rarely Sometimes Always), con un titolo rubato ai Beatles (le cui canzoni Julia ha adottato come ninna nanne per la figlia) ed un richiamo evidente alla stasi creata dal Covid 19. L'album è un duro schiaffo alla logica dell’iperproduttività ad uso e consumo dello streaming, nonché della visibilità a discapito della qualità, un disco concepito con un’etica che appartiene al passato, c’è un’ingenuità, un azzardo intellettuale, un’attenzione alle imperfezioni più che all’estetica: una scelta artisticamente vincente. Al di là del futuristico valzer condito da acrobazie di strumenti a fiato, fretless bass e grida di synth analogici di “Spinning”, questo è senza dubbio l’album dove la seduzione della musica pop resta ai margini, ognuna delle dieci tracce evoca emozioni e suggestioni descrivibili con un numero spropositato di aggettivi, quel che differenzia la musica di Julia Holter da altri maghi dell’architettura post-moderna è la sostanza delle composizioni. Nei tre minuti e quarantanove secondi di “These Morning” è custodita l’arte del movimento ritmico senza alcun ricorso a batteria e percussioni, un brano onirico e pulsante che con pochi accordi di piano elettrico e sax si colloca in un immaginario a metà strada tra David Sylvian e Joni Mitchell, fino a diventare un mantra dai toni pagani che Julia Holter intona con un incalzante loop lirico: just lie me, just lie me, just lie me…

Chiedetevi quanti artisti possono oggi permettersi il lusso di intonare un brano a cappella con poche sparute note e sottoporle ad una così ricca variazione cromatica e senza cedere alla prevedibilità del gospel(“Meyou”), ma non bramate alcuna risposta, l’incommensurabile è arte concessa a pochi eletti. La title track è esemplare della destrutturazione e dell’astrazione che la musicista ha trasformato in linguaggio musicale contemporaneo e popolare, come Kate Bush in “Aerial” Julia Holter si diletta con melodie mai definite, facendole roteare e librare in algide atmosfere che pian piano si infiammano al suono del sax e del piano elettrico, quest’ultimo in perenne dialogo intergenerazionale con suoni massivi di synth e flauti.
La dolcezza non è mai stata così profonda, intensa, struggente:la voce diventa strumento nella splendida ballata jazz-noir “Materia”, o fluttua con inedita spiritualità e sensualità nella poetica e dolente “Who Brings Me” sulle cui note finali si spegne l’album, l’eterogeneità degli elementi stilsitici dona luce e sfumature al cupo romanticismo jazz-folk di “Evening Mood”, e brulica di richiami – da Sun Ra a Kate Bush, da Mark Hollis a Bjork – nella lenta combustione di jazz, prog, folk e neoclassica di “Talking To The Whisper”. L’abilità di Julia Holter nel gestire pop e musica colta è palese già dalle prime movenze dell’album, il minimalismo lirico di “Sun Girl” è erede di una tradizione che ha affondato le radici nel blues, si è evoluta con la musica jazz ed è alla base della contemporaneità culturale e sociale del rap. Tutto l’album è un continuo incastro di tradizione e rinnovamento, di composizione e improvvisazione, di algide emozioni e slanci infuocati, un oceano di suoni e possibilità ereditate dal passato da consegnare al futuro, ed è proprio in “Ocean” che questo processo creativo è rappresentato nella sua interezza, il suono del clarinetto di Chris Speed è alterato prima con sembianze etniche per poi assumere toni a metà strada tra drone-music ed elettronica sperimentale, la voce di Julia Holter resta nell’ombra, assente come il colore nero nell’oscurità.
Con “Something In The Room She Moves” Julia Holter ci ricorda che l’arte senza rischio o azzardo non ha ragione di essere, e lo fà consegnandoci uno degli album più temerari degli ultimi tempi.

Julia Holter

Discografia

Live Recordings (live, Domino, 2010)

7

Celebration (Ep, Domino, 2010)6
Tragedy (Leaving Records, 2011)

7

Ekstasis (Rvng, 2012)

8

Loud City Song (Domino, 2013)

8

Have You In My Wilderness (Domino, 2015)

9

In The Same Room (Domino, 2017)

7

Aviary(Domino, 2018)8
Something In The Room She Moves(Domino, 2024)9
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Goddess Eyes I
(videoclip, da Tragedy, 2011)

Goddess Eyes II
(videoclip, da Tragedy, 2011)

Finale
(videoclip, da Tragedy, 2011)

Marienbad
(video, da Ekstasis, 2012)

In The Same Room
(video, da Ekstasis, 2012)

Moni Mon Amie
(video, da Ekstasis, 2012)

Our Sorrows
(video, da Ekstasis, 2012)

 

World
(videoclip da Loud City Songs, 2013)

In The Green Wild
(videoclip da Loud City Songs, 2013)

This Is A True Heart
(videoclip da Loud City Songs, 2013)

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