Anomalo, più che difficile, esplorare il complesso archetipo sonoro che Julia Holter offre alla nostra percezione, più che uno stile un'attitudine, una forma mentis che ospita la musica sperimentale come punto di partenza, per una elaborazione più vasta e complessa.
Autorevole esempio di indipendenza stilistica degli ultimi anni, la musica della Holter è più affine alla musica contemporanea. Abbracciando con passione la formula dei mantra, l'artista esplora l'energia della modulazione vocale senza cenni al divino, producendo una nuova forma di estasi ("Ekstasis").
L'autrice prosegue nella sua ricerca di suggestioni culturali del mondo greco che già ispiravano l'esordio "Tragedy", proiettandole tra world music multietnica (Africa, India e vecchia Europa) con field recordings e percussioni più precise di un metronomo.
Solide e ben strutturate, le stratificate e complesse creazioni armoniche incrociano musica neoclassica a languidi drone vocali con elementi di pop sfuggenti alla logica della progressione di note con refrain e pause in levare. "Ekstasis" prende per mano l'ascoltatore conducendolo dentro un'orchestra di synth, tra mura del suono attraversate da grida dal tono angelico.
Tutto sembra scorrere senza una precisa identità di stile, il piano picchia dolcemente come la pioggia sull'acqua e la musica diventa eterea per un puro gioco di illusione sonora.
L'originalità non è nelle fonti di "Ekstasis", ma nella sua elaborazione: Julia Holter incastra tasselli di sonorità che la mente percepisce come note. A tratti sembra di ascoltare Jon Anderson e il suo "Olias Of Sunhillow", in "Four Gardens", e le linee armoniche di "Holiday" dei Bee Gees suggestionano le atmosfere sospese di "Moni Mon Amie", e non è raro incrociare musica celtica e intuizioni avantgarde alla Laurie Anderson.
C'è musica psichedelica immersa in drappeggi vocali in "Our Sorrows", ma anche un malinconico blues in "Boy In The Moon", dove Julia cala la voce di un registro per esplorare il lato oscuro della sofferenza cosmica. Ma la vera apoteosi viene celebrata in "In The Same Room", che navigando per tre minuti su prevedibili beat elettronici e contagiosi effluvi pop, si libera nel finale con fulminei landscape sonori.
"Marienbad", tra suoni di Fender Rholdes e clavicembalo, intreccia le geometrie folk di Linda Perhacs con l'avantgarde di Arthur Russell, mentre le pagine più ardue e cerebrali di "Goddess Eyes I e II" evitano l'autocompiacimento intellettuale.
La musica di "Ekstasis" è suggestivamente carsica, i vuoti armonici offrono libertà alla fantasia, mentre l'eclettismo bussa alla porta con i variegati colori di "Four Gardens". Qui gli strumenti si moltiplicano senza perdere il tocco etereo e sognante che altrove furoreggia, il sax sembra violentare per un attimo la calma apparente per poi condurre l'ascoltatore nella pagina più ricca e festosa dell'album.
Non ho dubbi che, nel tentativo di raccontare le suggestioni di "Ekstasis", si resti imprigionato in un linguaggio aulico che tenta di stimolare l'attenzione, ma un disco cosi brillante in verità non ha bisogno di molte parole. Julia Holter ha oltrepassato i confini della ricerca creando uno dei più appassionanti e rimarchevoli album dell'anno. E non chiamatela la nuova Joanna Newsom, offendereste due delle migliori sensibilità musicali del decennio in una sola frase.
"Ekstasis" è una luminosa realtà, una proiezione sonora che trascende gli elementi di base e crea un nuovo archetipo di musica esoterica.
P.S. La tracklist della versione in vinile ha una sequenza differente da quella in formato digitale e su compact disc.
20/03/2012