Probabilmente da oggi in poi non penseremo più a Daniel Green come a un amabile compositore folk-pop, e soprattutto non guarderemo al progetto Laish come a un interessante imprevisto della musica indipendente inglese.
Sì, ora è giunto il momento di parlare di poesia e di poeti, perché alla soglia dei quarant’anni, l’ex-affiliato alla comunità artistica di Brighton, Willkommen Collective, ha portato al giusto grado di maturazione tutte quelle gustose architetture musicali e quei deliziosi incastri armonici sparsi nei precedenti capitoli, regalandoci un album dall’inconfondibile bouquet.
“Time Elastic” è un viaggio nella memoria, nel passato, un outing dai toni intimistici, ma anche sorprendentemente gioiosi e graffianti.
Pur senza un'apparente rivoluzione, è accaduta una piccola magia nel mondo di Green: le influenze più palesi (James Yorkston, Beatles, Divine Comedy) e quelle meno evidenti (Kurt Wagner, Leonard Cohen, Robert Wyatt) sono diventate un corpo lirico unico, fonte di un suono sempre più tipicamente Laish (“Devil’s Advocate”), altresì capace di flirtare ancor di più con le tentazioni pop senza uscirne indebolito (“University”).
Non è un caso che l’album sia stato ispirato dalla visione di “One More Time With Feelin’”, il film-documentario sulla genesi del doloroso album “Skeleton Tree” di Nick Cave. Le dolcezze acustiche di “Sand Is Shifting”, il tono plumbeo e ruvido di “Love Is Growing”, la sacralità lirica alla Leonard Cohen di “Listening For God” e soprattutto la tensione folk-rock della title track sono baciate da toni dolenti che a loro modo tentano di catturare quella confusione emotiva che fa seguito al brutale distacco da una persona cara. E’ come se Daniel Green tentasse di tirare le somme della sua vita con un certo anticipo, rispetto a quella naturale riflessione che abitualmente accompagna i giorni della vecchiaia. Nel farlo, tenta di esorcizzarne la malinconia con un’ennesima prova di forza, ed è infatti volutamente stridente il guizzo pop-dance di “Dance To The Rhythm”.
Con “Time Elastic” si attua infine quel processo di snellimento delle atmosfere più chamber-pop che diedero lustro al piccolo gioiellino di “Obituaries”. Questa volta però senza infarcire di riff e ritornelli spensierati il già solido canzoniere, come è avvenuto nel precedente “Pendulum Swing”, quanto piuttosto lavorando su una fragilità emotiva (“The Fox”) che in parte ripristina il furore malinconico degli esordi, mettendo in piedi l’album più eterogeneo e vulnerabile di Daniel Green.
22/04/2018