Amore e sofferenza, due concetti apparentemente antitetici e invece indissolubili: c’è tanto dolore nell’atto d’amore che ogni madre compie donando la vita, anche il rapporto sentimentale più felice e soddisfacente non può prescindere da quella piacevole e consensuale violazione del corpo nell’atto sessuale, ed è spesso nel dolore che ognuno di noi riesce a trovare quel legame ancestrale che rimette in moto la voglia di vivere.
La dimensione artistica di Lonnie Holley è strettamente legata al concetto di amore e sofferenza: ventisettesimo figlio di una famiglia afroamericana, rapito e venduto per una bottiglia di whisky, testimone impotente della morte di due nipoti divorati dalle fiamme, sopravvissuto a un grave incidente automobilistico, Lonnie conosce molto bene il legame imprescindibile tra gioia e dolore.
In questo tormentato passato trova radici l’articolato universo creativo del sessantottenne dell’Alabama: la sua prima creazione è stata una lapide per i nipoti morti nell’incendio, realizzata riciclando materiali recuperati in una discarica.
Le opere di Lonnie Holley sono oggi presenti nei più importanti musei americani, mentre le pubblicazioni discografiche sono ancora relegate a uno status di culto, in virtù anche di un’intensità espressiva difficilmente catalogabile.
Jazz, soul, blues, perfino rap: questo scorre in una creazione musicale che si sviluppa più come un flusso di coscienza che come una vera e propria elaborazione sonora.
La voce si libra come se fosse un sax in piena catarsi free-jazz (“Down In The Ghostness Of Darkness”), mentre le modulazioni sonore incrociano Gil Scott-Heron, ("I'm A Suspect"), Tom Waits (“Back For Me”) e Sun Ra ("Copying The Rock").
Registrato durante gli ultimi cinque anni trascorsi tra l’Oregon, Atlanta e New York, “Mith” compie un deciso passo avanti verso un suono più elaborato e nitido, grazie anche alla presenza di musicisti di calibro: il duo jazz Nelson e Patton, il sassofonista Sam Gendel, Laraaji, Shahzad Ismaily e Richard Swift (musicista recentemente scomparso).
Non solo amore e amarezza, ma anche sgomento, paura, e rabbia, trovano spazio negli ottanta minuti dell’album: dieci tracce che sono come ferite sanguinanti, cesellate come un manufatto scultoreo a suon di piano, trombe, tastiere e batteria, tutto perfettamente incastonato tra atmosfere quasi psichedeliche e un’insana spiritualità blues.
I testi meriterebbero un trattato critico a parte, anche se uno sguardo ai titoli è sufficiente per comprendere l’oggetto dell’interessante e intenso tour de force tematico: “I’m A Suspect”, “I Woke Up In A Fucked-Up America”, “Down In The Ghostness Of Darkness”, titoli dai quali è facile estrapolare l’oggetto delle invettive sociali e politiche dell’artista (“sono un sospetto in America, ma finirò per diventare un granello di polvere nell’universo madre”, ...“ho sgattaiolato via da una nave di schiavi solo per andare su un’altra”...).
I diciotto epici minuti di “I Snuck Off The Slave Ship” sono il cuore strumentale dell’album, sorretto da un drammatico insieme di piano e batteria avvolto dal suono della pioggia e dal tocco plumbeo del basso, mentre l’ipnotico cosmic-jazz di “There Was Always Water”, il groove ritmico di “How Far Is Spaced Out?”, i campionamenti elettronici sparsi tra le pieghe free di “Copying The Rock” e le atmosfere lunari di “Coming Back (From The Distance Between The Space Of Time)” danno un’idea della enorme quantità di stimoli sonori che Lonnie Holley cattura nel suo visionario e straziante lirismo.
E’ un‘opera coraggiosa e alquanto complessa, il nuovo disco dell’artista americano, un’esperienza che potrebbe cambiare in maniera irreversibile la vostra percezione musicale, un progetto intenso e totalizzante che pur trovando nel vivace finale di “Sometimes I Wanna Dance” un potenziale riscatto emotivo, resta un album sofferto e doloroso, e per tal motivo ricco di autentico amore per la vita.
03/11/2018