A guardarlo oggi sembra impossibile, ma Richard Swift non è sempre stato il battitore libero che conosciamo, uno dei nomi nuovi più interessanti della canzone d'autore americana. Una quindicina d'anni fa, un attimo prima degli apprezzati esordi indie, l'eccentrico polistrumentista Ricardo Sigilfredo Olivarez Swift-Ochoa stava di fatto ultimando il proprio apprendistato tra le improbabili maestranze del rock cristiano. Abbastanza magrolino, il capello tagliato molto corto, nessun accenno di barba o pizzetto. Un'altra persona e, di fatto, tutto un altro musicista, ancora ingenuamente imbrigliato in un formulario espressivo trito e per nulla coraggioso, la stessa aria viziata che sin da ragazzino il Nostro aveva respirato esibendosi per questa o quella chiesa nelle zone rurali dello Utah o del natio Minnesota. All'epoca si esibiva ancora come Dicky Ochoa, stesso pseudonimo con cui nel 2000 presentò il suo primo album eponimo, a quanto pare commissionatogli da un pastore e registrato alla meno peggio sul suo quattro tracce a cassetta, giusto per pagarsi le bollette e i vezzi da filmmaker amatoriale. Ne seguì presto uno analogo, intestato al moniker Company. Il cognome adottato era ancora quello del padre, di origini messicane, ma, al momento di imbarcarsi nel suo vero progetto solista, Richard scelse di accantonarlo per abbracciare la sola ascendenza materna in omaggio al nonno Clifford Swift, da lui descritto come un pianista sensazionale.
Di quel passato remoto e per molti versi ingombrante, oggi non restano praticamente tracce. Richard Swift compare quasi dal nulla dopo il trasferimento nella California del sud, nel 2001: ha un cespuglio nero sulla testa, un paio di baffetti e non è proprio longilineo. Anche il suo stile non passa inosservato, merito di un talento vivace e onnivoro nel recupero di tradizioni anche molto lontane tra loro (folk, soul, pop, blues, vaudeville, ragtime, elettronica povera) ma con radici alquanto profonde nel cuore della musica popolare degli States.
La ballata di Ricardo Sigilfredo Olivarez
Non sono trascorsi che pochi mesi da quando è approdato in California e Richard ha già da parte un album a proprio nome. Registrato da Chris Colbert, Walking Without Effort esce una prima volta, proprio in quello stesso anno, per una piccola etichetta locale, la Spunk, di fatto senza distribuzione o visibilità alcuna. Swift vi mette in scena se stesso e il suo mondo incantato, un altrove senza tempo che più che una semplice dimora estetica appare un vero e proprio rifugio spirituale, un'illimitata comfort-zone utile a preservare l'artista dall'imperante volgarità di formule musicali alla moda in cui mai potrebbe riconoscersi. Dopo il breve tema introduttivo, l'esordio del giovane songwriter parte con un'intonazione frizzantina che non dispiace, un seducente abito notturno come ideale cornice per il suo crooning nostalgico ma mai lezioso ("Half Lit"). Con "In The Air" i primi occasionali fiati, caldi ma per nulla pacchiani, accompagnano questo impressionista della canzone nelle sue perlustrazioni intimiste, tra soffusa meraviglia à-la Harry Nilsson e un disincanto già proverbiale nella sua sobrietà. La chitarra, pure del tutto marginale, si ritaglia un ruolo da protagonista giusto in "As I Go", una garbata ballad a fari spenti delle sue, senza additivi o edulcoranti e immancabilmente carezzevoli.
Brani come "Mexico (1977)" scorrono con passo lento, un'andatura quieta e ciondolante, ma rivelano nel contempo anche una disinvoltura che lascia sinceramente ammirati, trattandosi di un esordiente. Gusto, misura e capacità di stupire ci sono già, manca forse solo quella esplosività pop che Swift saprà sfoderare in seguito, preferendo ancora, in questa circostanza, le placide diversioni, tonalità seppiate o acquerellate, i chiaroscuri appena accennati, senza esasperare troppo il tratto nei facili contrasti. In episodi come "Losing Sleep", tuttavia, si coglie ugualmente la grandezza di un interprete e arrangiatore superbo, ricercato senza suonare fasullo. Pur ancora limitato nella gamma di sfumature, Richard tradisce una sicurezza formidabile e incanta con la semplicità dei suoi voce e piano stile Van Dyke Parks, revivalisti sino al colmo eppure incredibilmente attuali. Non fosse abbastanza, ecco l'ottimo congedo di "Beautifulheart": con la piena pulizia sonora dalla sua, si intuisce senza possibilità di equivoci il potenziale di un autore maiuscolo, maestro di un retro-pop marezzato ma lucente, invariabilmente languido e all'occorrenza dardeggiante.
È davvero un buon disco di canzoni, Walking Without Effort, profilo e umore tendenzialmente dimessi per dare sfogo a una vena introspettiva irrinunciabile, ma anche una raccolta sufficientemente luminosa, con un'implicita inclinazione all'easy-listening che la rende alquanto ammaliante. Il primo Richard Swift non fatica, insomma, a imporsi come un autentico campione di understatement, impressione se possibile rafforzata dalla sua seconda prova solista, The Novelist, plasmata in perfetta autonomia a cavallo tra il 2002 e il 2003, un periodo intenso che vede il musicista impegnato in studio e in tour (ai cori e alle tastiere) con le band shoegaze Starflyer 59 e Pony Express. Stampato dalla pure miserevole Velvet Blue in un limitato numero di copie, per lo più vendute o regalate nei suoi frequenti concerti losangelini, il disco resta per almeno un biennio un ulteriore piacere per pochi intimi.
Tocca superare solo un nuovo rapido incipit per ritrovare Richard, in parte occultato dalla bassa fedeltà e dai sottili ghirigori di un'elettronica poverissima. Le sonorità datate sono le medesime della prova precedente, ma già si affaccia una malia nuova, quella che lo vedrà intrigare ad ampio raggio di revival negli anni immediatamente successivi: fumosa, polverosa e incantevole, sotto l'ovvia egida del suo pianoforte. Questo sophomore indulge in una felice caoticità e in una propensione al bozzettismo cui il Nostro non rinuncerà mai del tutto. Stesso discorso per quell'estro bandistico e in piena estasi alcolica - un terzo New Orleans decadente, un terzo sunshine-pop zuccherino e per il resto piglio da robivecchi, da collezionista di anticaglie di un repertorio musicale americano ormai caduto in disgrazia - il tutto condito da un'irrinunciabile indole scherzosa, dal gusto per la commistione, per i cortocircuiti alto-basso, per le stravaganze da songwriting filatelico e le occasionali sporcature, incongrue magari ma gustose ("Lovely Night").
Con quel debole mai sconfessato per ipotesi stilistiche al crepuscolo, eleganti quanto demodé, le creazioni dell'eccentrico e brillante Swift sembrano forme di intrattenimento saltate fuori all'improvviso da un grammofono polveroso. In questo la sua proposta cantautoriale resta schiettamente ai margini di qualsivoglia scena contemporanea, orgogliosamente naif e fuori posto eppure accattivante con quella sua malinconia un po' estenuata, con quella grana vintage indossata come un vestito identitario e non semplicemente simulata per bieco opportunismo di forma. La scrittura poi resta efficace e infettiva, prova di un dandysmo mai ruffiano, molto meno ingenua e disarmata di quanto vorrebbe far credere. La fruizione di The Novelist ha i contorni di un sogno a occhi aperti, sospesa come in una bolla, leggera e confortevole grazie a perle tipo "I Should Have Been Home More" affogate nel flusso amabilmente dispersivo di un ininterrotto esercizio di stile, plasmato più per diletto e affinità anche sentimentale che non per chissà quale oculata velleità espressiva.
Frattanto, il giovane musicista non intende chiudersi in uno stereotipo e si dimostra attivo anche in altri campi artistici. Da quando era adolescente non ha mai smesso di baloccarsi in ambito visuale, così ha già da parte uno sterminato repertorio di cortometraggi dal sapore sperimentale (per certi versi affini alle opere di Stan Brakhage). Da tempo aveva in mente un'ideale colonna sonora per alcuni di essi, che si concretizza nel 2005 con la pubblicazione di un album eponimo attribuito a un nuovo moniker, Instruments Of Science & Technology. In questo caso si impone la sua vocazione all'astrattismo, a una visionarietà pulviscolare che in sede di accompagnamento a immagini appare pure opportuna, alla maniera dei Broadcast delle ultime animazioni post-avanguardiste. Inutile perché fuori luogo cercare connessioni con i lavori a firma Richard Swift, eccetto il lungo Ep doppio che il Nostro intesterà all'alias Onasis tre anni più tardi. Suggestioni sci-fi di recupero, sprazzi di robotica futurista, ipotesi kraftwerkiane allucinate o ipnotiche trame ambientali ("Shooting A Rhino Between The Shoulders") abitano una collezione sfuggente, fantasmatica e non di rado densa di inquietudini ("Plan A & Plan B"). La sua è un'elettronica criptica ed eterea a un tempo, che ben si riallaccia al fenomeno hauntology, un flusso immaginifico, onirico, disturbante e fieramente antintellettualistico che va apprezzato come divagazione estremista, un diletto privo di particolari aspirazioni artistiche ma in fondo alquanto sentito dal songwriter nella sua incarnazione più incorporea, nebulosa e felicemente escapista (si ascolti l'illuminante "Ghost Of Hip Hop").
I due brevi Lp, oltre alla manciata di sette pollici ed Ep che segue a stretto giro di posta, non passano inosservati. È la Secretly Canadian a offrire il primo vero contratto al cantante, fresco di trasferimento in Oregon, e a promuovere in una raccolta combinata ("The Richard Swift Collection Vol. 1", 2005) i suoi due dischi semi-carbonari. La prima collezione di inediti pubblicata dalla label di Bloomington, il terzo album di Richard, arriva un paio di anni più tardi. Non occorrono molti ascolti per rendersi conto che l'autore di questo Dressed Up For The Letdown merita di essere annoverato tra le grandi rivelazioni del nuovo cantautorato a stelle e strisce, oltreché tra gli alfieri più convincenti di un implicito movimento di riforma del pop-psichedelico che, a partire dai primi anni Duemila, ha già proposto all'attenzione generale nomi interessanti quali Kelley Stoltz, Lawrence Arabia e Jim Noir. Swift mostra di avere ben assimilato la lezione di tanti grandi maestri e riesce a suonare classico pur conservando una propria genuina originalità, senza rincorrere le mode più in voga e rielaborando alla sua maniera decadi e decadi di cultura musicale popolare.
Forte di una chitarra dal sapore decisamente folk e di un piano alla Van Dyke Parks, Richard non nasconde in queste dieci splendide canzoni il suo amore profondo per la scena californiana di fine anni Sessanta come per i lampi dei Beatles e dei Kinks di quello stesso periodo, ma non fa nemmeno mistero di volersi riallacciare alla grande tradizione ormai dimenticata della Tin Pan Alley, corrente musicale nata alla fine del diciannovesimo secolo e caratterizzata da uno stile leggero che incorporava elementi jazz, blues, ragtime, per creare canzoncine commerciali dal gusto ballabile. Un simile repertorio contribuisce a impreziosire in modo determinante il songwriting comunque attualissimo di Swift, amplificandone le influenze e caricandolo di suggestioni musicali e letterarie, evidenti nell'irriducibile gusto per la citazione oltre che nei testi sarcastici e arguti di queste ballate dai colori caldi e vivaci. "The Songs Of National Freedom" ricorda il Lennon più esile, parte come una marcetta con piano frivolo ma è tutt'altro che una banale canzonetta (come suggerisce anche la voce molto versatile di Richard), lasciando intravedere in conclusione anche qualche sbuffo di elettronica minimale à-la Sparklehorse.
Sulla stessa lunghezza d'onda il formidabile pop bandistico in perfetto stile Divine Comedy di "Kisses For The Misses", un gioiellino che sta a metà tra il vaudeville daviesiano di "Sitting By The Riverside" e il Rufus Wainwright degli esordi, permettendosi anche il lusso di citare "Fruit Tree" di Nick Drake. A proposito di Wainwright, è impossibile non riconoscere nelle linee melodiche di "Buildings In America" la malinconia di un capolavoro come "Poses", anche perché la voce di Swift, pure più nasale e meno aggraziata, rivela un analogo potere evocativo e fascinatorio. Da non sottovalutare il retrogusto beatlesiano che un po' tutte le composizioni dell'album rivelano in filigrana, con menzione speciale per "P.S. It All Falls Down", sfacciatamente bella e sottile da sembrare quasi la cover caustica di uno dei brani di "Let It Be".
Davvero non è facile stilare una classifica tra le canzoni di questa raccolta visto che l'alto livello qualitativo è una delle costanti di Dressed Up For The Letdown. Quel che è certo è che non ci sono passaggi a vuoto o episodi deboli tra gli anelli della catena. Da applausi l'easy-listening esemplare di "Most Of What I Know", ballad ispiratissima che sa coniugare con naturalezza inquietudine ed entusiasmo, sfodera un ritornello micidiale e sul finale lascia spazio ai fiati, accentuando l'enfasi romantica senza guastare. La voce di Swift si apprezza particolarmente in "Ballad Of You Know Who", sorretta a dovere dall'eleganza del pianoforte e dai violini, dispensata in dolci lamenti così da determinare nell'ascoltatore un irresistibile coinvolgimento emotivo. È lo stesso effetto che produce la malia della successiva "The Million Dollar Baby" (curioso il richiamo all'omonimo film di Clint Eastwood), dove il ruolo di protagonista è affidato a una chitarra che parte al velluto per farsi via via più lancinante (ma senza eccessi), lasciando trasparire un umano senso di disperazione.
L'andatura è rilassata e poco incline alle esasperazioni, ma in un paio di episodi Swift riesce a raggiungere la massima intensità andando molto piano: accade in apertura con la title track, dove l'incedere acustico tra fiati leggeri e handclapping ha un inconfondibile sapore di Messico, come un'escursione a dorso di mulo, e si ripete con la conclusione poetica di "Opening Band". È questo uno dei casi in cui il genio di Richard si esprime con la massima potenza espressiva nel frammento (come è riuscito non di rado a Badly Drawn Boy, tanto per citare un nome conosciuto), cosa che capita anche in quell'altra gemma che è "Artist & Repertoire". Splendide la dissolvenza e la metafora "Joan The Baptist/Opening Band", nella prima, esemplari la capacità introspettiva e il disincanto nella seconda, attacco indiretto al music business tutto giocato sul filo di un'amarissima ironia.
Una stravaganza oceanica
Dressed Up For The Letdown è una rivelazione e consente al songwriter statunitense di uscire dall'anonimato per regalarsi una visibilità a livello nazionale e non solo, incrementata presto dai tour americani ed europei che seguono (da solo e a rimorchio degli Stereolab). Il disco vale però anche come banco di prova per lo studio di registrazione che Richard ha aperto in Oregon, il National Freedom, nonché per le sue aspirazioni di produttore. In occasione di una serata come ospite della trasmissione della Bbc "Later... with Jools Holland", Swift viene abbordato da un entusiasta Pat Sansone, chitarrista di Wilco e Autumn Defence, che lo presenta a Jeff Tweedy. Quest'ultimo gli offre di registrare la sua successiva fatica direttamente nel suo loft di Chicago e lo invita ad aprire i concerti dei Wilco nel tour di "Sky Blue Sky". Prima di godersi una disponibilità di mezzi per lui impensata fino ad allora, il Nostro ha comunque modo di licenziare, sempre via Secretly Canadian, un doppio Ep di venti brani, intitolato Richard Swift As Onasis e presentato alla stampa con una lapidaria dicitura: "Music to dance drunk to".
La propensione al frammento si esalta in un'uscita sgangherata, ludica e caciarona, in cui Swift si diletta nei panni dell'esploratore rumorista. Un'operina amabilmente dispersiva, una festa dell'approssimazione che ha eletto a manifesto l'estetica del marginale, ma anche un sabotaggio sistematico, la decostruzione della forma-canzone a caccia di impressioni, di istantanee rigorosamente mosse, sfuocate, sfarfallanti, e con il cantante quasi sempre fuori campo o camuffato sotto travestimenti grotteschi e rutilanti come capita in "The German (Something Came Up)". Con le sue estemporanee e urticanti digressioni blues da pezzenti, citate espressamente nei titoli - "Vandervelde Blues", "Greaseball Blues", "Knee-High Boogie Blues" - o meno, diverte a sufficienza pur restando una raccolta futile, discontinua ed elusiva in modo programmatico, quasi per necessità: un divertissement torrenziale e ineffabile, buona prova di vivacità creativa da intendersi però in rigoroso senso collaterale.
L'Onasis evocato nel titolo è un accumulatore furbastro di frivolezze musicali ("Sign Language", che ricorda addirittura il Vic Chesnutt amatoriale di analoghi esperimenti trash), un collezionista di suggestioni pulviscolari che si balocca con ogni sorta di espediente formale o di sonorità, dal vintage trasfigurato al minimalismo dada, dalla chincaglieria lo-fi al miniaturismo ultrariverberato, con gusto eccentrico che solo di rado, tuttavia, sfocia nello sfrontato sadismo di altri colleghi ben più irriguardosi in fatto di bella forma. Oltre al cantato il grande escluso è il pianoforte, cui sono preferiti organetti e synth polverosi, eccedenze di un modernariato ormai destinato alla dismissione, e quando pure faccia capolino è solo nei panni dell'imbucato che non sa intrattenere a dovere il suo esiguo pubblico. A perdita d'orecchio c'è spazio per le ipotiposi di scarto: talvolta estatiche per quanto meste ("Field Painting"), talvolta semplicemente strampalate, in altri casi gagliardamente orientate al primitivismo rock ("Your Mom") o alla stilizzazione garage-pop alla maniera dei Dirtbombs vacanzieri di "Ooey Gooey Chewy Ka-blooey!" ("Phone Coffins"), quando non perse in un alienato guazzabuglio kitsch ("JLH").
Si strizza spesso l'occhio al Lennon più futile e inconcludente ("Whistle At The Bottom Of A Shoe"), eccedendo un tantino nella rumenta fine a se stessa. E allora casca proprio a fagiolo quella scapestrata faccia da schiaffi che il cantautore dell'Oregon ostenta assieme alle finte ammaccature nell'immagine di copertina. Una maschera che dura peraltro giusto l'espace d'un matin, rimpiazzata da quella più criptica di un altro Ep, Ground Trouble Jaw, sontuosa anteprima per la successiva fatica.
Sono in tutto cinque nuovi brani, tre dei quali ("Lady Luck", "A Song For Milton Feher" e "The Original Thought") faranno bella mostra anche sull'imminente quarto album. Gli altri due sono la gemma doo-wop trasfigurata di "Would You?", prova di romanticismo revivalista che non ha nulla da invidiare a campioni in odore di filologia come Reigning Sound, King Khan & BBQ Show o Shannon & The Clams, e l'altrettanto formidabile scherzo di "The Bully", a metà strada tra vizioso funky-soul con patina di muffa e spoken word musicato Motown. Curioso il riferimento a Milton Feher, autore misconosciuto di un disco di spoken word nel 1962, "Relaxing Body And Mind". Uno dei suoi brani si intitolava "Walking Without Effort", una coincidenza per il cantautore che all'epoca dell'omonimo esordio non aveva mai sentito parlare di quell'anziano performer ma che volle poi conoscerlo e registrare con lui per mezza giornata, per avere la sua voce nella prima raccolta di Instruments Of Science & Technology.
Frattanto, l'ora del nuovo album è giunta. Registrato in combutta con Chris Colbert (tecnico del suono di fiducia per i Walkmen), con l'assistenza del polistrumentista Casey Foubert (già con Sufjan Stevens e Pedro The Lion) e un quartetto di ospiti lussuosi, Ryan Adams, Mark Ronson, Sean Lennon e Pat Sansone, The Atlantic Ocean è opera che spiazza.
Amante del dettaglio e dell'ironia, Swift nasconde indizi importanti nella surreale copertina dell'album. Abbandonati sul ripiano accanto al giradischi, si riconoscono facilmente gli Lp di "Bringing It All Back Home", "John Lennon/Plastic Ono Band" e "Dirty Mind". Titoli scelti con oculatezza e per nulla casuali, riferimenti indispensabili per interpretare l'ennesimo ribaltone sonoro del cantante di stanza in Oregon: se Dylan è eletto a simbolo della vocazione cantautoriale e Lennon rappresenta la conferma dell'inguaribile inclinazione alla fantasia, il primo capolavoro di Prince diventa uno strumento prezioso per raccontare questo bizzarro cambio d'abito musicale. La rivoluzione stilistica si infrange sull'ascoltatore con l'eclatante glam-pop della title track, coloratissimo brano d'apertura dall'incedere saltellante, tra rigonfiature sintetiche, riverberi, sonagli pacchiani e coretti mirabilmente orchestrati, il cui testo si concede il lusso di citare Blondie e il tardo Lou Reed. A rinforzo di tali imbeccate visuali, l'autore descrive spesso nelle interviste la nuova fatica con una formuletta colorata: "Prince sitting in on John Lennon's Plastic Ono sessions". L'occhio attento non fa poi fatica a riconoscere nel collage della cover la stessa montagna che faceva da cornice a Richard in Dressed Up For The Letdown. Anche questo è un chiaro avvertimento: sotto gli eccessi del travestimento, il songwriting non è cambiato.
Ne è una conferma il ruolo fondamentale del pianoforte in pieno stile Van Dyke Parks, vera griffe espressiva per Swift. In "R.I.P.", ad esempio, la sua preminenza a livello ritmico e melodico è tanto marcata da restare ben impressa, segno di una vena autoriale che si dimostra perfettamente a suo agio anche con gli alleggerimenti pop. Si tratta di un parziale ritorno al disco precedente, destinato a risolversi in una sorta di marcia che fa tanto New Orleans e scongiura con intelligenza il rischio della caduta nella stucchevolezza di maniera. Ed è ancora una frizzante marcetta a cadenzare l'andatura di "A Song For Milton Feher", alternando spruzzate d'elettronica vintage e tanto synth-pop a radure malinconiche che si perdono lentamente nella dissolvenza del refrain. Ancor più che in passato il cantautore opta ripetutamente per la sorpresa, disorientando con l'accumulo di soluzioni musicali controverse ed eccentricità varie: capita con l'impeccabile parata di "Ballad Of Old What's His Name", repentina danza di umori (dall'incanto alla grinta, alla festa farsesca), con le screziature folk minimali e l'easy-listening calibratissimo di "The First Time", ma anche con i toni da vaudeville, da operetta, da festival circense, che innervano di fiati e addobbano la fantastica "Bat Coma Motown". I risultati, sovraccarichi ma geniali, danno ragione al cantante. Swift si destreggia in agilità con i suoi motivetti, tutti i brani si lasciano puntualmente canticchiare dopo un paio di ascolti e si resta meravigliati per come questo meccanismo creativo funzioni come un orologio svizzero, assorbendo senza colpo ferire ogni sorta di manipolazione stilistica o citazione.
The Atlantic Ocean è un disco folle ma assolutamente riuscito. Gioca senza alcun timore la carta dello spiazzamento ma lo fa con gusto, con ironica finezza, con un bluff revivalista semplicemente portentoso. Le sue sono canzoni pop dirette, a presa rapida, geneticamente modificate dal folk, dal soul e da certe sonorità anni Ottanta che oggi tendono a esser lette come trash ma che Swift dimostra di amare alla follia. Il suo spirito ludico emerge in tutta la sua esuberanza con la briosa "Hallelujah, Goodnight!", in una selva di organetti sbuffanti che imbarocchiscono il delizioso ritornello ma non incrinano la semplicità di fondo di un brano comunque dolcissimo, pure con qualche sporcatura kitsch di troppo. Piaccia o meno, Richard Swift si conferma un autore di razza che sa contenere la propria effervescenza prima che diventi difficile da gestire o da far tollerare. Uno dei pregi di un album tanto stravagante (e quindi non facile) sta proprio nel rispetto di determinati limiti, quelli che separano la ricercatezza e lo stile dall'eccesso fine a se stesso.
Impossibile non perdonare al cantante il tradimento della delicatezza autoriale suggerita nell'incipit di "The Original Thought", visto che la mascherata pop tutta lustrini che segue è comunque un gioiello, festoso e malinconico al contempo, adorabile anche in virtù delle sue sbandate e delle sue grottesche coloriture. Con "The End Of An Age" Swift mostra in pieno la sua natura di creatore bifronte, di maturo saltimbanco umorale, svestendo i panni del frivolo intrattenitore per assumere quelli del crooner sofisticato, controllatissimo: con sfacciata disinvoltura il suo pianoforte passa dal brio alla lacrima in un amen. Anche in un episodio forse meno riuscito come "Already Gone" ha bisogno di tutto il suo ruffiano talento per strappare l'applauso: al di là della teatralità e del taglio nostalgico vagamente lezioso, Richard lavora sull'automatismo e replica certi suoi standard (e la bella tonalità beatlesiana) con convinta dedizione. Nel finale scuro e inesorabile di "Lady Luck", con un beat lunare che è ideale per le sue scorribande vocali e strizza l'occhio alla Motown, si concede il lusso di sfoderare il suo miglior falsetto di sempre: un pezzo di bravura strepitoso e una coda perfetta per l'ennesimo album indovinato.
Il 2010 è per Swift un anno di diversioni significative. Per cominciare, con Music For Paradise Armor il Nostro replica senza entusiasmare l'esperienza del progetto collaterale Instruments Of Science And Technology. La nuova raccolta prosegue il discorso inaugurato cinque anni prima senza sostanziali variazioni della formula, non fosse per l'inflazionato ricorso a una sorta di puntinismo elettronico, una logica decostruttiva che finisce per perdersi in una pulviscolare trasposizione di ipotesi sonore ormai invertebrate, sbrindellate ("Dancecontestwinner", oggi divenuto il moniker prediletto di Swift sulle piattaforme social) che annullano di fatto buona parte del fascino della precedente uscita ("Mt. Mountain", "Clkclk"). Ne esce una library music scompaginata e del tutto sfarfallante, con fiammate di psichedelia estemporanea, tormentati appunti field recording, frenetiche trasfigurazioni ambient, variegati incubi di minimalismo rumorista e aerofoni come polmoni malati, pronti per la discarica ("Lungs"). Il sudiciume sintetico ha preso il sopravvento infettando ogni suggestione durevole per dare forma a un'ossessiva e ritornante paranoia sonora ("Old Hanshakes").
Ben più interessante è invece l'album che il cantautore realizza assieme all'amico Damien Jurado, per il quale ha da poco seguito in guisa di produttore l'apprezzato "Saint Bartlett". Inciso tra la cucina e la sala da pranzo della casa di Richard in un weekend di fine agosto del 2010, con un vecchio quattro tracce a cassetta e un microfono a nastro degli anni cinquanta, Other People's Songs Volume One è una collezione delle più svariate riletture, da Bill Fay agli Yes e da John Denver ai Kraftwerk.
Sin dalla prima nota la confezione si rivela povera, l'approccio aulico ma polveroso, e si fa il verso a Brian Wilson per quanto in una versione così austera (e talvolta grigiastra) che lo spiazzamento è inevitabile. Damien si ritaglia in avvio un ruolo di pur compassato protagonista mentre Richard è intento a baloccarsi nei panni del produttore squattrinato ma non certo sprovveduto in quanto a inventiva. Già con "Hello Sunshine", dei carneadi west-coast Relatively Clean Rivers, le parti si invertono e si passa a un technicolor pure d'annata, tra morbidi arpeggi folk (registrati in dieci minuti dall'unico ospite, il chitarrista Josh Ottum), fiati tenui e una confermatissima impronta corale, quasi gospel. Il tono è rilassato ma sufficientemente luminoso e riporta dritto al Greenwich Village anni Sessanta, a una canzone d'autore placida e ottimista. Come si evince dal falsetto coordinato di una ben meno oscura "Sweetness", quel che di fatto viene tratteggiato è un nuovo viaggio a ritroso in una ben circoscritta mitologia musicale. L'operazione è di quelle forbite e giocoforza marginali ma può dirsi sostanzialmente riuscita, merito della versatilità dei due interpreti e del talento tecnico di un Richard che in primo luogo si conferma eccellente filologo, davvero abile a celebrare le classiche nozze con i fichi secchi.
Swift si mostra perfettamente a suo agio con le inflessioni languide di un cantautorato incline al romanticismo e dalle formidabili nuance melodiche. Certo, l'attualizzazione di queste formule è ferma al grado zero perché i Nostri non intendono stravolgerne groove e suggestioni originali, quindi sembra di trovarsi al cospetto di vecchi classici dimenticati per decenni in un baule, di essere entrati in una bolla sospesa, congelata in un passato elegante e irripetibile che per la coppia coincide con un'ideale comfort zone anche sentimentale e riesce a sprigionare una sua magia a tratti irresistibile. La regola aurea dell'alternanza aggiunge un minimo di vivacità al disco, spostando di volta in volta gli equilibri da una parte o dall'altra, ma sempre solo a livello di dettagli. L'assonanza tra i due artisti, l'unione espressiva di intenti, è tale da rendere l'album davvero coerente fino alla fine, con "Follow Me" e "If The Sun Stops Shinin'" come assoluti numeri di pregio. "Outside My Window", episodio per converso più disadorno, si dimostra peraltro capace di un intrigante sfolgorio emozionale, così il fruttuoso minimalismo dei due esce rinfrancato da una prova soffusa ma tutt'altro che algida o cruda.
Il pianoforte di Swift si regala un cammeo giusto in "Crazy Like A Fox", per quanto il suo turno di cantante segni una doppia rinuncia proprio nelle battute conclusive. L'onore spetta quindi a Jurado anche in "Radioactivity", vera sorpresa dell'album, con l'ordito kraut-rock estrapolato dal contesto elettronico e ricodificato sulla frequenza del saccharine underground di Lee Hazlewood, per rilasciare una freschezza inedita quanto radiosa.
Other People's Songs Volume One promette un implicito seguito a stretto giro di posta che tuttavia, anche inspiegabilmente, non si concretizzerà mai. Esce inoltre solo in download gratuito in rete. I link vengono rimossi abbastanza presto, così la raccolta rimane introvabile fino al 2015, anno della quantomai provvida uscita fisica.
Nei cinque anni di intervallo Swift si afferma intanto sempre più come produttore di grido, offrendo i servigi del suo National Freedom, oltre al solito Jurado, ai vari Laetitia Sadier, Mynabirds, Gardens & Villa, Tahiti 80, Tennis, Foxygen, Guster e Shins. Non contento, entra a far parte proprio della band di James Mercer in veste di tastierista (e corista).
A completamento di una fase a elevata prolificità, nell'ottobre del 2011 esce sempre per Secretly Canadian un nuovo Ep interamente curato da Richard, Walt Wolfman. Ritorna a tutti gli effetti lo Swift elegante ricettatore di sensazioni musicali cadute in disgrazia, il languido sacerdote del revival con patente di primitivista in incognito e licenza di sabotaggio: una discreta goduria a dispetto della marginalità di un'operazione che tradisce tutta la propria ironia sin dalla coda tarantiniana di "MG 333". La ricerca del cantautore prosegue impassibile in territori dolcemente perturbati, aperti a una contaminazione ubriacante che spazia dai turgori R&B alle sirene di un soul rigorosamente sovraesposto, tutte ipotesi di un modernariato impazzito come la maionese e schiantatosi come un clandestino assai poco gradito nell'attualità. Con coerenza superlativa il Nostro insiste con uno schematismo garage-revival morbidamente riverberato, all'occorrenza esaltato in chiave romantica da un falsetto à-la Lawrence Arabia ("Laugh It Up"), altro orfano inconsolabile di Harry Nilsson, non a caso. Ne risulta un sound invariabilmente sporco, estenuato e fascinoso che trova la sua straniante apoteosi nelle paradigmatiche inflessioni di "Zombie Boogie", altro passaggio che svela più di un'affinità spirituale con l'inguaribile infezione passatista di Shannon Shaw e Cody Blanchard (con minor propensione al macchiettismo, forse), o di un Mark Sultan.
Con l'andare dei minuti la bassa fedeltà sale come una marea nera sulla scogliera rock, insudiciando ogni prospettiva con una ferocia proto-punk a stento trattenuta. Un'animazione mannara e velenosa che, al netto delle modulazioni pop qui assenti, presenterà più di un'analogia con la clamorosa opera seconda di King Tuff. La galleria di mostri si completa con il surf allucinato di "Drakula (Hey Man)", quasi un affettuoso omaggio alle alienazioni gospel e al sublime pattume predicatorio dell'ultima incarnazione svenoniusiana, quella della cricca freak Chain & The Gang.
Anche il congedo di "St. Michael" non intende sconfessare le linee guida di una gustosa mistificazione beat, destinata peraltro a non lasciare significativi strascichi nell'operato di un artista d'ora in poi propenso al nascondino delle seconde linee, a una manovalanza squisitamente tecnica, al gregariato che sa in fondo di confino autoinflitto per una voce così originale e amabilmente fuori dagli schemi. Richard non pubblicherà altro a proprio nome, come Instruments Of Science And Technology o in combutta con il sodale Jurado. Intensificherà invece i suoi impegni di produttore o le sue sortite da sideman: cuore pulsante della backing band R&B di Nathaniel Rateliff, i Night Sweats, bassista in tour per i Black Keys e compagno di Dan Auerbach nella nuova avventura discografica, The Arcs.
Tutte lodevoli iniziative, non sufficienti però a controbilanciare il ritiro dalle scene dello Swift songwriter e interprete, una scelta che dispiace. La speranza di tornare ad ascoltarlo come protagonista incontrastato parrebbe non dover sfumare in dissolvenza ma si infrange, il tre luglio 2018, per via dell'improvviso annuncio della sua morte a Tacoma, a causa di un collasso di fegato e reni dovuto alla grave dipendenza da sostanze alcoliche di cui il cantante (sprovvisto per giunta di assicurazione sanitaria) soffriva da tempo. Richard Swift esce così di scena ad appena quarantuno anni, lasciando una moglie e tre figli.
E' una pur magra consolazione la notizia, diffusa a stretto giro di posta dalla sua etichetta, che il Nostro avesse comunque in serbo per i fan un'ultima sorpresa. Assente discograficamente dal 2009 – se non si considerano le uscite brevi o la collaborazione con Jurado – non ha mai davvero smesso di scrivere nuove canzoni. La consapevolezza della fine ormai prossima, con i disastri di salute già conclamati e il moltiplicarsi dei ricoveri in ospedale, lo hanno spinto negli ultimi mesi a concentrare i suoi sforzi nel completamento di un’ulteriore raccolta che, si legge sul sito della Secretly Canadian, era diventata la sua personale “balena bianca”. The Hex è un disco piuttosto doloroso da approcciare, e non solo perché rappresenta l’estremo lascito di un artista di talento quanto piuttosto per l’afflizione che, pur magistralmente dissimulata, lo abita in ogni solco. Uno dei passaggi più leggeri, “Broken Finger Blues”, rievoca il senso di angosciosa sospensione che accompagnò il songwriter quando nel 2010 si fratturò malamente l’anulare della mano sinistra e per alcuni mesi non seppe se avrebbe potuto continuare a suonare chitarra e pianoforte come prima. A dispetto dello sconforto, il tono riesce estatico, giubilante, e l’assolo piazzato in coda vale come miglior esorcismo possibile. Non tutte le storie raccontate qui, tuttavia, sono a lieto fine ed è la malinconia a pervadere l’ascolto come la maledizione suggerita dal titolo. Non inganni la briosa giocoleria Tin Pan Alley di “Dirty Jim”, chiarissima re-immersione nello sfavillante antiquariato dell’indimenticabile Dressed Up For The Letdown: è un brano che parla di dipendenza, e lo fa con tutta la disperazione del caso.
Un album dal cuore innegabilmente pesante quindi, ma che per Richard deve aver avuto anche una profonda valenza catartica. Così si spiega il trittico dedicato alla perdita di persone amate: dalla madre Wendy, ritratta con quel piglio arrembante, curioso, eclettico e dispersivo a fine di bene (che rappresenta un po’ la quintessenza dell’arte anguillesca ma personalissima del Nostro), all’amica Nancy, vagheggiata da una sublime deformazione di stampo bowieano, passando per la più lenta e toccante elegia in memoria della sorella. A tratti enfatico con tutti i suoi ruvidi falsetti, sempre profondamente intimista, The Hex è forse il lavoro di Swift più intriso di lirismo, una collezione di canzoni per l’arrivederci (una per tutte l’amarognola “Hzlwd”, cui proprio non gli è riuscito di trovare le parole) confezionate con un sound saturo, appena sgrezzato, tutt’altro che pulito, giudicato evidentemente il più idoneo per rendere quella prospettiva di assoluta precarietà, o di gioiosa condanna, con cui amava rappresentare l’esistenza (persino in quella sorta di ossessiva litania che è “Babylon”).
Dall’incombente teatralità seventies di “Selfishmath”, nuova declinazione del suo soul lunare e mutante, alla nenia polverosa e visionaria che in avvio annulla lo sperimentalismo pop fanfarone di Atlantic Ocean per concedersi un’ulteriore sortita nel cantautorato asciutto dei primi album, senza dimenticare la parentesi freak di “Kensington!”, intonata agli Ep sfilacciati (ma per nulla inclini al compromesso) della tarda produzione, vale anche come eccellente compendio della sua arte inconfondibile. “Sept20”, l’ultimo brano scritto in assoluto, riecheggia ancora una volta, con “Ballad Of You Who”, i tramonti nichilisti di Dressed Up For The Letdown e si presenta con opportunismo impeccabile a chiudere un cerchio che, per nostra sfortuna, non offrirà ulteriori repliche.
RICHARD SWIFT | ||
Walking Without Effort(Spunk, 2001) | 7 | |
The Novelist (Velvet Blue Music, 2003) | 6,5 | |
Dressed Up For The Letdown(Secretly Canadian, 2007) | 8 | |
Richard Swift As Onasis Ep(Secretly Canadian, 2008) | 6 | |
Ground Trouble Jaw Ep (Secretly Canadian, 2008) | 7 | |
The Atlantic Ocean(Secretly Canadian, 2009) | 7 | |
Walt Wolfman Ep(Secretly Canadian, 2011) | 6,5 | |
The Hex(Secretly Canadian, 2018) | 7 | |
DAMIEN JURADO & RICHARD SWIFT | ||
Other People's Song Volume One(Self-released, 2010) | 6,5 | |
INSTRUMENTS OF SCIENCE & TECHNOLOGY | ||
Instruments Of Science & Technology(Otaku Disk, 2005) | 6,5 | |
Music For Paradise Armor(Asthmatic Kitty, 2010) | 5 |
Beautiful Heart | |
Kisses For The Misses | |
Artist & Repertoire | |
Ballad Of You Know Who | |
The Songs Of National Freedom | |
Most Of What I Know | |
Knee-high Boogie Blues | |
Would you? | |
Lady Luck | |
The Atlantic Ocean |
Sito ufficiale | |
Pagina etichetta |