Sono passati ben sei anni dall’ultima volta assieme, ma nel frattempo Arish Ahmad “King” Khan e Marco Antonio “Mark Sultan” Pepe hanno avuto modo di pubblicare dischi solisti, rispolverare vecchie collaborazioni, separarsi e riprendere a suonare gomito a gomito nel giro di pochi mesi. All’improvviso tornano in pista con la più apprezzata delle loro società – la premiata ditta King Khan & BBQ Show – ed è come se niente fosse cambiato nel mentre: stessi adorabili volteggi doo-wop (o meglio, bop shoo-wop), stesso superbo r’n’r dei primordi sciorinato con piglio da filologi, stesse sguaiate effrazioni punk di grana grossa, identico groviglio di svenevolezze e idiozia, citazioni a raffica, psichedelia scarmigliata, pop inacidito e ruvidezze garage assortite. La coloratissima miscela servita senza troppi fronzoli alla mensa dei revivalisti anonimi è la solita bomba kitsch ipercalorica: dodici nuove canzoni che saccheggiano un repertorio di stili morti e sepolti e sfrecciano esuberanti nei lettori o sui giradischi di chi gli album ancora ama acquistarli, quando arrivano.
Che questi due romanzi ambulanti sappiano il fatto loro è ormai fuori discussione. A seguirli con spensierata bonarietà può capitare facilmente di entusiasmarsi, mentre pretendere di interpretarne le gesta alla ricerca di recondite implicazioni è pura fatica di Sisifo. Certo “seguirli” è impresa buona solo per le intenzioni. King Khan non lo trovi mai dove l’hai lasciato. Sensational Shrines, Almighty Defenders, Black Jaspers, Tandoori Knights, Vomit Squad, Ciaoculos, Red Mass, Cocobeurre: una matassa di progetti paralleli seconda forse all’assurdo subisso pollardiano ma pur sempre capace di far invidia anche a Wild Billy Childish, non certo un pivello nella stessa specialità. Mark Sultan ha mutuato dal sovrano la medesima schizofrenia, limitandone il raggio d’azione agli insulsi pseudonimi adottati dal vivo (una dozzina almeno). L’approssimazione è per loro un vestito così ben confezionato da riuscire a meraviglia nel proprio inganno espressivo: i ragazzacci canadesi sono sarti abilissimi e, dove non supportati da una scrittura all’altezza delle loro cose migliori, colmano lo scompenso con il consueto, ottimo mestiere.
In questo “Bad News Boys”, quarto capitolo della discografia comune, lo standard crudo e guizzante dei predecessori è ribadito su tutta la linea e modellato in comodi e sbrigativi bozzetti: pacchianissime feste a base di riverberi e colesterolo, chitarre fuzzate, amplificatori scrausi, chincaglieria sonora e rock irrancidito. Sin dal via è un trionfo, specie con l’arcicanzonetta che apre i giochi all’insegna di un arrembante romanticismo, tra jangle-pop e lo-fi. Sultan canta e Khan ne rinforza in chiave ludica il tono di irresistibile malinconia, grazie a una gustosa scorta corale. A posizioni presto invertite (“Illuminations”) si conferma l’inesorabilità della formula, uno scalcinato e ruvido power-pop, assai meno ingenuo di quanto si vorrebbe dare a intendere. Della stessa fatta è anche “Killing The Wolfman”, altro pezzo che ha tutta la slabbrata classicità del duo e si fa largo a colpi d’assolo (una chicca) con sfrontatezza favolosa.
Riecco il garage-punk primitivista della casa, scatenato a livelli opportunamente schizoidi (“D.F.O.”, “Zen Machine”). Da anni non li si sentiva così a briglia sciolta, da quando la loro prima creatura, gli Spaceshits, impazzava allo stato brado e li innalzò all’onore delle cronache per la sua tendenza a regalare esibizioni tanto fulminee quanto deliranti, immancabilmente chiuse con scazzottate e lanci d’ortaggi (che valsero loro l’espulsione da tutti i locali di Montreal).
Bene, dopo oltre quindici anni la devianza musicale non si è riassorbita, ma il “Re” e il suo fidato gregario hanno imparato a disciplinarne le incontinenze assecondando il proprio insano amore per il tempi andati. In questa occasione tornano a guadagnare terreno i pezzi rapidi, scapestrati, tetanici, rumorosi, pestoni e improntati alla goliardia: motivetti ultraleggeri à-la King Tuff, infarciti di riff elementari e, manco a dirlo, lercissimi (“When Will I Be Tamed?”). Non manca un numero prossimo al rockabilly, tanto futile quanto delizioso, che non dispiacerebbe a un altro mattacchione con i giusti trascorsi come Jon Spencer (“Snackin' After Midnight”).
Antimodernisti fino al parossismo, come solo gli altri fenomeni Shannon & The Clams sono riusciti a suonare negli ultimi anni (e nemmeno sempre), burberi rubacuori intrappolati in un passato sempre più remoto e sempre più attuale, i King Khan & BBQ Show finiscono col prodursi in un eccentrico revival di se stessi. Al solito si rivelano infallibili quanto inconsapevoli semiologi della cultura musicale medio-bassa, rigurgitando in quadretti nuovi di zecca stilemi di musica leggera vecchi più di loro, senza le pretese accademiche di tanti noiosissimi colleghi ma con l’amore e l’entusiasmo di chi veramente non sa più distinguere la propria arte dalla propria vita. L’algido effetto diorama è peraltro scongiurato grazie alla naturale follia e all’irriducibile carisma degli artisti. Così il risultato risuona vivo e palpitante, come se gli oltre cinquant’anni di tormentoni centrifugati in ogni pillola da due minuti e via fossero annullati dalla luce di un’inattesa seconda giovinezza. (“Buy Bye Bhai”).
Se l’enfasi derivativa è rimarcata quasi a ogni curva, tra strillate e coretti infettivi regolarmente sopra le righe (“Ocean Of Love”), è ancora il disimpegno plateale la chiave per inquadrare senza fraintendimenti la loro musica dionisiaca, una mascherata tirata su per trastullo da due anime in perenne licenza. Nostalgici, crepuscolari e orgogliosamente fuori tempo massimo (“Never Felt Like This”), Khan e Sultan restano fedeli ai loro cliché di quarta mano e portano avanti quella che ha tutti i crismi di un’autentica missione estetica. Compiuta ancora una volta, tra le altre cose.
(03/04/2015)