Lawrence Arabia

Lawrence Arabia

Genio in sordina

La singolare avventura di un promettente trasformista del pop, da perfetto alfiere naïf e crooner dispersivo a criptico gentiluomo magrittiano, con i santini di Harry Nilsson e Scott Walker nel taschino della giacca

di Stefano Ferreri

Decadentismo in salsa kiwi

Ci avete fatto caso? Una delle parole più abusate (quasi sempre a sproposito) dalla critica musicale è "genio". Dovessimo fidarci degli aggettivi sulle riviste, sui siti specializzati o sui semplici blog, non potremmo che limitarci a constatare che viviamo in una realtà dorata di genialità a buon mercato. Un disco riuscito, un singolo ben sponsorizzato, un nuovo autore che potrà fregiarsi della generosa credenziale. Anche se crederlo è quanto di più gratificante, sappiamo tutti che il mondo reale sforna fenomeni con molta più parsimonia di quanto non racconti la stampa e di quanto noi stessi, in fin dei conti, vorremmo sperare. Scriviamo degli artisti che abbiamo scovato magari fortunosamente, tendiamo a esaltarci non appena incrociamo un album che transita sulla nostra stessa lunghezza d’onda, ma per eccessivo e sincero entusiasmo finiamo con l’incappare nel medesimo errore che altri commettono scientemente, per puro interesse promozionale. I geni veri non si incontrano facilmente. A recitare la parte dei soloni pessimisti, verrebbe addirittura da dubitare che autori di questa risma esistano ancora o comunque creino la loro arte sugli stessi standard aurei che li hanno consacrati, in passato. Capita invece di imbattersi, non così di rado, in musicisti e cantautori che del genio esprimono solo determinate caratteristiche, magari a sprazzi, non potendo quindi essere annoverati nella categoria dei prodigi autentici. Spesso e volentieri sono proprio loro gli artisti più interessanti: quelli imperfetti, quelli nascosti, quelli col silenziatore.

lawrencearabia_270x220_vCapaci di tirare fuori dal cilindro un coniglio di tanto in tanto, estemporaneo intervallo tra un paio d’atti di assoluta ordinarietà, oppure di coltivare in disparte un talento non proprio comune, di giocarci a nascondino come non volendosi mai prendere troppo sul serio. Uno degli ultimi creativi a rientrare in maniera agile nella schiera appena descritta risponde al nome di James Milne, ha da poco passato la trentina ed è uno tra i cardini della giovane (e assai promettente) scena indie-pop neozelandese,  pur vivendo da qualche anno a Londra e avendo manifestato legittime esigenze di sprovincializzazione artistica. A introdurlo nel giro giusto del sottobosco alternative locale è stato l’amico Jonathan Bree, leader assieme a Heather Mansfield di una fortunata compagine di Auckland, i Brunettes, nella quale Milne ha mosso i primi passi della carriera suonando un po’ di tutto, a cominciare dal basso. La subalternità tuttavia doveva essergli di peso e così James, appena gli si è presentata l’occasione, ha provato a cimentarsi con materiale proprio, sia in solitaria (dietro il moniker Lawrence Arabia) che al timone di una vera e propria band, i Reduction Agents. Sono stati sufficienti un paio di LP a convincere delle sue qualità artisti di prima grandezza come Will Sheff o Feist, il primo cooptandolo come turnista negli Okkervil River, la seconda facendogli aprire tutte le date di un tour europeo. Queste pur buone credenziali  non sarebbero mai sufficienti a convincere chicchessia del fatto che James Milne sia un genio, anche perché chi scrive qui – primo tra tutti – non lo crede minimamente. Però non dispiace portare un minimo di attenzione su uno di quei talenti minori (si vedano tra gli altri i vari Richard Swift, Kelley Stoltz, Jim Noir e via andando) che, lontani dai riflettori, si stanno cimentando in una personale riscrittura della tradizione pop con risultati quantomeno apprezzabili.

Eccoci così al battesimo di Lawrence Arabia, personaggio nato quasi per scherzo con i travestimenti goliardici on stage nel ricordo della celeberrima pellicola con Peter O’Toole, cui Milne vagamente somiglia. Dalle carnevalate durante i concerti dei Disciples of Macca – formazione tributo a Paul McCartney condivisa ancora con Jonathan Bree e con Ryan McPhun dei Ruby Suns – al già emblematico esordio del progetto solista, il passo è stato davvero molto breve. Il primo album del biondo neozelandese, eponimo,  è uscito in contemporanea per la sua etichetta (Honorary Bedouin) e per quella di Bree (Lil’ Chief) nell’aprile del 2006. Chi cercasse un’immediata conferma a quanto scritto pocanzi in merito al patologico basso profilo di Milne, consideri che il disco in questione comincia con una sequenza di ben quattro filler, pure di ottima fattura, e altri ne dissemina via via sul tragitto, dall’esilissimo divertissement di “Everyone Had Dinner With Rabbits” al frammento scapigliato di “The Kinds of Feelings That Happen on Summer Beaches”. Se bastano gli episodi iniziali a chiarire come l’inclinazione di questa prima prova sia decisamente folksy-cantautorale, non si può liquidare la tendenza al bozzettismo senza rimarcare la gentilezza, la semplicità miracolosa e quella sottile atemporalità che preservano anche riempitivi senza grosse pretese (quale è ad esempio il brano d’apertura, “The Mystery Lair”) dall’impietosa etichetta del banale. Milne si offre poco per volta, adottando cadenze sornione ed un distacco che è tutta apparenza. Servendosi magari di un tappeto di elettronica morbida e prudente (“Half The Right Size”), Lawrence Arabia si ingegna per “addormentare il gioco” ma è comunque insinuante e sa colpire al momento giusto con la sua voce ammaliante e malandrina, prima che i riverberi della sua elettrica gli diano il cambio e prendano il sopravvento. Anche in questo atteggiamento traspare una certa propensione di stile per un dandismo che é tanto sofisticato quanto polveroso (e lontano dalla grazia), abbracciando una sorta di maniera noir a fin di bene, con sincera passione per il genere e appena qualche debito di troppo nei confronti di Bowie (“Thistle Tends To Stingle”).
lawrencearabia_270x220_iQuando concede campo libero alla propria vena decadente, James approda a esiti incoraggianti. “Talk About Good Times” è discreta, romantica, anacronistica, perfetta per gli ideali titoli di coda di un film ancora da girare: il classico colpo ad effetto che lascia il segno anche senza ricorrere a soluzioni appariscenti, vera virtù che è solo dei talentuosi. A rimorchio di questo gioiellino di crooning consumato ecco “Bloody Shins”, dove il fare estenuato, la malinconia di grana grossa e un lennonismo imperante riescono come per magia a non scadere nel fiacco sentimentalismo che per tanti sarebbe stata una sicura falla. L’obliquità è una delle migliori carte nel songwriting di Milne, e questo esordio la porta all’attenzione dell’ascoltatore in tante occasioni.“Hold Us Together With Sutures” è sicuramente una delle migliori, nonché l’episodio più sfuggente di tutto il disco: il canto si fa più ruvido, lamentoso, stropicciato (quasi un miagolio), mentre le deviazioni arrivano dai curiosi inserti notturni che enfatizzano il potenziale melodico emozionando in un finale elettrico sempre più esasperato e crepuscolare. Stupiscono nell’album gli accostamenti anomali sul piano sonoro, disposti quasi con indifferente coraggio dall’autore, fondendo soffusi ricami acustici, sottili campionamenti ed occasionali aromi psichedelici. E’ la follia gentile di Lawrence Arabia, sempre misuratissimo nel suggerire alternative bislacche alle soluzioni di comodo o agli effettacci eclatanti che per molti basterebbero a compensare i vuoti pneumatici di una creatività lacunosa. Nel finale questa tendenza produce alcuni dei suoi frutti più gustosi, tra melodie traballanti che si conficcano in testa al primo giro di giostra, radiose e irresistibili schiarite sixties (“I Hope The Pope Makes You a Saint”) e buone impennate di asprigna emotività (“The Thinnest Air”). Non occorre dilungarsi in esempi lampanti per rivelare la felice inclinazione pop di Milne, un accenno di quella dote veramente notevole che il neozelandese saprà poi sviluppare con maggiore autorevolezza in diversi episodi delle prove seguenti come nell’uscita di gruppo con i Reduction Agents: sono sufficienti le ombre beatlesiane (l’eco di “Revolution” è dietro l’angolo) di “Business Planning”, evidentemente qualcosa più di un’acerba dichiarazione di intenti. Un po’ come tutto quest’esordio, peraltro.

Conigli nel cilindro

Il 20 aprile 2006 non deve essere stato proprio un giorno come tutti gli altri per James Milne. In abbinamento di lancio con l’eponimo Lawrence Arabia, Lil’ Chief e Honorary Bedouin fecero uscire in quella stessa data anche il primo e per ora unico album dei Reduction Agents, band capitanata da Milne con il frontman dei Ruby Suns Ryan McPhun negli improvvisati panni di batterista, oltre a un paio di misconosciuti compari a completare l’organico. Evidentemente la scelta di sincronizzare al minuto la pubblicazione di questo doppio esordio fu voluta con forza dall’autore, intenzionato a sparare tutte le proprie cartucce nella speranza di fare centro in almeno un’occasione. Di certo la strategia ha pagato: fino ad allora James si era limitato a suonare in diversi dischi o EP dei Brunettes restando abbastanza nell’ombra, specie come autore. Il suo contributo al secondo LP dei concittadini (“Mars Love Venus”, 2004) con la canzone “You Beautiful Militant”, affidata alla splendida voce della Mansfield, deve aver spinto l’amico Bree ad incoraggiarne con forza i sacrifici, ripagati in meno di due anni dalla soddisfazione di questa duplice uscita. Il reclutamento da parte dei grossi calibri americani di cui si è detto, le tournee da antipasto in giro per il mondo, la fuga a Londra e la firma con la Bella Union avrebbero poi completato il quadro della fulgida ascesa per la giovane promessa kiwi. Se per Lawrence Arabia Milne aveva composto in pochi mesi materiale nuovo o rielaborato per l’occasione nella spoglia ma intrigante veste dell’album, The Dance Reduction Agents  si è presentato come l’occasione unica per ragionare da leader di una compagine e non semplicemente da solista, qualità chiaramente nelle corde del cantante di Christchurch da chissà quanto tempo.

lawrencearabia_270x220_iiAnche in questo caso James non ha fatto altro che organizzarsi e registrare canzoni che gli danzavano nella testa da anni, più intrise, rispetto a quelle destinate al progetto solista, di una vena scoppiettante per assecondare la quale era necessario un lavoro di gruppo, una visione partecipata e condivisa da più spiriti affini. Messi al servizio di una vera band questi brani riescono a funzionare in modo impeccabile, e poco importa se i musicisti non sono proprio dei fenomeni. Rispetto a quell’altra opera, The Dance Reduction Agents  non patisce gli spifferi di un eccessivo solipsismo, di un’intonazione spesso cerebrale e artefatta per quanto sostanzialmente sincera e più che godibile. E’ un disco sorprendente questo, estremamente espansivo e a fuoco pure nell’eterogeneità degli spunti proposti. Fatica piuttosto a trattenerli, pecca di eccessiva spontaneità e dell’assenza di maschere che filtrino l’insieme come orientamento più consapevole. Difficile considerare un male quello che, per paradosso, rappresenta proprio il punto di forza dell’album, la sua natura incontenibile. Anche se non siamo in presenza di un genio, di un talento canonico e a tutto tondo, non resta un dettaglio da poco che questo novellino venticinquenne dall’altra parte del mondo abbia saputo tirar fuori in un sol colpo due dischi così diversi e così in armonia, perfetti nel completarsi a vicenda rappresentando le due anime del loro autore con estrema veridicità. L’album dei Reduction Agents è una formidabile esplosione pop, una collezione di hook irresistibili e di sorprese estemporanee.

Chi volesse farsi un’idea può provare con “80’s Celebration”, frammento introdotto dalla drum machine e capace di sposare con disinvolta bravura strofa malinconica e delizioso refrain uptempo, il tutto in un memorabile (e per nulla ridondante) concentrato di due minuti scarsi apparso a suo tempo nella commediola da Sundance Festival "Eagle vs Shark". Di più. Se Lawrence Arabia non faceva pesare il rilievo di debiti sin troppo scoperti nei confronti di sicuri maestri del passato, in The Dance Reduction Agents l’opera di citazionismo intelligente si fa se possibile ancora più smaliziata ed eclettica, portando Milne a spaziare in un vasto range di riferimenti senza mai suonare fasullo o troppo derivativo. Dalle squillanti chitarre di “Urban Yard” (che fa tanto Kinks primi anni settanta) alla colorata sgroppata power-pop di “Our Jukebox Run Is Over” (sorta di impossibile confino nei seventies per gli Zombies), non c’è modo di annoiarsi. In collegamento diretto con alcuni tra i migliori momenti della prima prova in solitaria, “The Pool” rappresenta un altro smaccato furto con scasso dallo scrigno Beatles: “Being For The Benefit Of Mr. Kite” viene scopiazzata con rispetto ed amore per poi essere innervata di una follia policroma molto più attuale, parente prossima dei Supergrass. In “Last Night’s Love” va in scena l’ospitata canora di un Jonathan Bree che restituisce all’amico il favore di due anni prima e contribuisce alla curiosa fusione tra il proprio cristallino approccio al pop e quello più obliquo di Milne, compensando i soliti vecchi cliché da ballata romantica al pianoforte.
lawrencearabia_270x220_iiiTanto per alzare la posta James e i sodali decidono di organizzare in“Mississippi Moonshine Girls” una festa a base di Jangle-pop credibile quanto infettivo, guardando alla lezione dei Byrds dal comodissimo avamposto Paisley Underground dei mai troppo apprezzati Rain Parade. Applausi. Piaccia o meno, per il musicista neozelandese The Dance Reduction Agents  è la palestra perfetta in cui esercitare liberamente le proprie intuizioni trasformiste. “Sweet Ingredients”, pagina più sofisticata da navigato seduttore, è emblematica di questo spirito cangiante e discontinuo che predilige le sterzate stilistiche e di tonalità, le assidue deviazioni melodiche studiate per tener sempre desta l’attenzione di chi ascolta. Il miracolo, rispetto a Lawrence Arabia e al successivo Chant Darling, è che qui non ci sono giri a vuoto: nessun calo di ispirazione, nessun filler (persino la piccola“Freeways” aspira al titolo di gioiellino grazie ai sensazionali impasti vocali e al falsetto) piazzato di straforo, nessuna infelice ingenuità. Dalla calorosa posa da rubacuori di “Waiting For Your Love” al ciondolante (e dolcemente indolente) voce e chitarra di “Cabinets and Mountaintops”, dal rispolverato intimismo folk-cantautorale di “Cold Glass Tube” al crooning appassionato dell’intensa “Couldn’t Anymore”, è tutto un continuo cambio d’abito, con un meccanismo nell’insieme così ben oliato dal non lasciar intravvedere sbavature o passi falsi: stropicciato ma senza incertezze, romantico ma non ruffiano, raffinato ma non manierista, il Milne dell’esordio con la sua band improvvisata resta il migliore ascoltato sin qui, una promessa molto più solida di quanto i successivi passaggi non abbiano detto, un autore più libero dai condizionamenti nel recuperare quanto amava dal passato. In due parole, più personale.

Commodoro senza bussola

Dopo i fuochi d’artificio del duplice esordio, Milne ha macinato chilometri su chilometri al seguito di svariate star della scena indipendente nordamericana ed europea, non ultimi i Concretes e i connazionali Crowded House, venendo anche cooptato come musicista in un paio di tournee nel vecchio continente. Ha cambiato residenza, optando per Londra, ha firmato con la mitica etichetta di Beach House, Explosions in the Sky, Midlake e Czars, la Bella Union, e, cosa più importante, si è fatto ampiamente desiderare. Ci sono voluti circa tre anni perché il moniker Lawrence Arabia tornasse sugli scaffali dei negozi specializzati con il fatidico sophomore effort, quasi un’eternità per un artista giovane ed emergente, ma bisogna riconoscere che difficilmente avrebbe potuto esprimere se stesso in maniera più fedele di quanto Chant Darling non abbia fatto per lui. Arrivato sul mercato europeo con l’incredibile ritardo di oltre un anno, questo è un disco che ha davvero tutto del suo autore, pure nell’inevitabile incompiutezza di una quarantina di minuti scarsi: ne incarna in pieno l’irregolare, sofisticata e nostalgica grandezza ma, ancor più che in passato, ce lo presenta spesso e volentieri intento a concedersi pause inattese e non giustificate per un songwriter che ha in fondo ancora tutto da dimostrare. Miserie e nobiltà espressive convivono a stretto contatto nell’angusto spazio di un piccolo album, talento e broccaggine si danno il cambio in un’opera che sa deliziare e imbarazzare senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza mezzi termini. Al cantante di Christchurch viene a mancare troppo sovente la rinfrancante levità del giusto mezzo, un livello medio di tutto rispetto, e gli innegabili miglioramenti espressi in pezzi di superba fattura finiscono con l’essere accompagnati da passaggi di sconcertante pochezza, indisponendo automaticamente chiunque avesse riposto in lui determinate aspettative. Chant Darling parte in maniera del tutto incoraggiante ma ha il demerito di svilirsi presto, girando a vuoto troppo a lungo e quasi irrimediabilmente. Dopo tre ottimi pezzi catchy, Lawrence Arabia non riesce a mettere il silenziatore alla propria immaturità e pecca d’ingenuità nell’azzardato calypso-lounge di “Auckland CBD Part Two”, ibrido improbabile (ma ancora abbastanza godibile) offerto nella confezione povera di un risaputo lo-fi e con la recidiva ostinazione per il frammento che già aveva limitato il più che valido esordio del 2006.

lawrencearabia_270x220_ivNella sua proverbiale (e in fin dei conti fallimentare) passione per il nascondino, James rivela una tendenza masochistica che nella musica leggera non può proprio pagare. Della squillante ma ricercata immediatezza e delle sgargianti tinte unite del miglior Milne si fatica a trovare traccia, mentre torna a prevalere l’effetto flou di Lawrence Arabia, l’amore per il soft focus e per certa fumosa indefinitezza, quella logica dispersiva che, spingendo l’ascoltatore a soffermarsi su dettagli secondari, non può che penalizzare per forza di cose l’efficacia e l’acutezza della scrittura. Altrove è la scarsa convinzione del neozelandese ad indebolire le sue canzoni. “The Beautiful Young Crew” non sarebbe affatto male se James la sviluppasse con la dovuta accuratezza anziché abbandonarla in uno stato a dir poco embrionale, con striminzito ricamo di chitarra, coloriture sbiadite di qualche fiato tristanzuolo ed una carica corale invero alquanto smorta. Nella parte centrale del disco – una “pancia” sfortunatamente considerevole – regna sovrana un’eccessiva approssimazione che pesa in quanto frutto di uno svogliato approccio al songwriting. Il basso profilo – il Nostro dovrebbe ormai averlo imparato – è ingrediente deleterio quando si punti a creare del buon easy listening. “Fine Old Friends” non fa che confermarlo: carina sì, nel solco dell’esperienza condivisa con Ryan McPhun per merito di quella discreta predisposizione alle trame semplici e di agevole impatto, eppure poco brillante anch’essa, praticamente un’outtake scarsina da The Dance Reduction Agentse niente più. Chant Darling riesce comunque a fare anche peggio. Quello di “Eye A”, per dire, è un pop bandistico senza alcun mordente, con troppa faciloneria ed una piattezza di fondo disarmante: con il suo brio alla naftalina e la sua allarmante assenza di idee decenti sarebbe discutibile anche come sciapa B-side, mentre troneggia invece proprio nel cuore dell’album. Di poco migliore la successiva “The Crew of the Commodore” (ennesimo riferimento metaforico a ciurme e viaggi per mare, tema sviluppato con buona efficacia nelle immagini promozionali che hanno accompagnato l’uscita dell’LP), forse un po’ troppo buttata li, affogata nella noia e nella sua stessa fiacca indolenza per riuscire a colpire davvero l’attenzione di chi ascolta.
Tutto questo per rendere conto di quanto possa essere sciagurato il buon Milne quando gioca a risparmio o da per scontata la meraviglia del proprio tocco. Tutto questo per ribadire che non è proprio di un prodigio che si sta parlando, anche se, a onor del vero, il resto di Chant Darling mantiene e rilancia le promesse dei precedenti incoraggianti episodi. La partenza, come accennato, è da knock-out tecnico.“Looks Like a Fool” è un numero magistrale da navigato ammiraglio del pop, sempre per la serie dei titoli di coda (o di testa, in questo caso) ideali. Raffinata ma diretta, con una voce finalmente priva di incertezze e i coretti angelici che esaltano la sua vocazione sixties, svela nello sviluppo della sua trama un calore ed una squisitezza armonica che testimoniano a fondo la volontà di James di rischiare qualcosa, il suo romanticismo da perdente d’altri tempi. E’ una canzone pop che insegue da vicino la perfezione solleticando con la sua apparente idea di scontatezza, con la falsa disinvoltura di chi vuol lasciar intendere che quanto creato sia il frutto di un’estrema, irrisoria facilità, mentre è vero l’esatto contrario. “Apple Pie Bed” è un altro impeccabile congegno pop che emana prodigiosi aromi anni ’60 e tiene alta la soglia dell’espansività grazie ad un ritmo contagioso (prezioso il basso) e all’ennesimo ritornello killer della casa. Dietro la spensieratezza di facciata e la leggerezza del taglio e dei riferimenti, si affaccia però l’irriducibile malinconia (come suggerisce anche l’ambigua promiscuità del vizioso videoclip), altro dardo vincente nella faretra del neozelandese. Tra i due brani forti d’apertura, “The Undesirables” appare più elementare e stilizzata nella resa melodica, pulviscolare in quanto a sostanza e durata, eppure è un ulteriore pezzo di bravura per via di quel refrain maledetto (in pratica non c’è altro) che insiste a omaggiare Lennon come stella polare e si conficca implacabilmente nella testa di chi gli presti attenzione.
lawrencearabia_270x220_viA questa partenza prodigiosa fa seguito la lunga ellissi di cui si è detto, e bisogna arrivare addirittura alla nona traccia per ritrovare un passaggio di eguale pregio, se non superiore: “I’ve Smoked Too Much”, un gioiello, l’orgoglioso colpo di coda del genio dopo un mezzo oceano di banalità. Parte con i soliti coretti brillanti, prosegue con la melanconica e sfacciata (in senso buono) posa da crooner lagnoso per poi sfociare in un nuovo irresistibile ritornello, svoltando sempre con estrema perizia tra le più disparate ed amabili direzioni melodiche. Vuoi per la superba fattura, vuoi per la sorpresa di averlo ritrovato quando non lo si sperava più, è un vero piacere stargli dietro per tutti i cinque minuti e mezzo: durata doppia per gli standard di Lawrence Arabia, anche perché si tratta praticamente di due canzoni (ottime entrambe) in una. La chiusa, riservata all’affabile “Dream Teacher”, conferma il livello qualitativo elevato del miglior James pur con estrema economia di risorse, a conferma che con i suoi soli impasti vocali Milne è capace di risultati eccelsi. Molto più raccolto, aulico, delicato ma anche estremamente toccante (si prenda ad esempio la formidabile estasi wilsoniana che chiude il crescendo) e immune al virus della maniera. Un momento di autentica goduria per il finale, irritante se ci si sofferma a raffrontarlo con le troppe pause precedenti ma comunque di buon auspicio per il futuro imminente. Nella speranza di poterlo ritrovare corroborato dalla franchezza succosa dei suoi  passaggi più convincenti, senza quelle scorie di timidezza e gli eccessi dispersivi che ne hanno sempre inzavorrato il talento.

Lawrence Arabia diventa adulto

Nonostante il suo sviluppo discontinuo e qualche ingenuità di troppo, Chant Darling si è rivelato un disco discretamente fortunato, tra recensioni lusinghiere apparse ovunque e un paio di prestigiosi riconoscimenti raccolti in patria (tra cui la prima edizione del Taite Music Prize, equivalente neozelandese del Mercury Prize). Evidentemente rinfrancato dai risultati, Milne ha quindi scelto di concedere una licenza a Lawrence Arabia per dedicarsi ad altro. E’ entrato a far parte dei BARB, una sorta di supergruppo tutto neozelandese, assieme ai figli d’arte Liam Finn (rampollo di Neil, leader dei Crowded House) e Eliza Jane Barnes (figlia di Jimmy Barnes dei Cold Chisel), e alla promessa psych-pop Connan Hosford, meglio noto come Connan Mockasin, nel cui fortunato esordio "Please Turn Me Into The Snat" ha anche suonato il pianoforte e contribuito ai cori. Oltre a una serie di tour, il collettivo ha realizzato un album eponimo a fine 2010, nel solco di un art-rock corale decisamente sopra le righe, alla maniera dei Polyphonic Spree e, se possibile, anche più chiassoso e sbalestrato. Nel quadro delle piacevoli amenità collaterali di questa fase è parsa ancora più significativa la collaborazione con Mike Fabulous – conosciuto anche come Lord Echo – già cantante e chitarrista nella band dub dei Black Seeds, culminata nel 2011 con la pubblicazione di un LP scritto, suonato e prodotto in proprio dai due musicisti e cointestato ai rispettivi alias.

lawrencearabia_270x220_viiTra felici suggestioni disco e un notevole opportunismo nella scelta degli artifici pop, questo Unlimited Buffet si presenta come un cocktail di generi dalla confezione impeccabile, calligrafico e patinato seppur nella prospettiva dei cultori affezionati, quindi a fin di bene. “Up To My Neck in Shit” è episodio paradigmatico del tono ironico e delle fluide cadenze funk-soul al calor bianco di cui il disco è pregno, con la sua effettistica vintage filologicamente corretta, le orlature minimali e il tocco frivolo à la Scissor Sisters, solo un tantino meno caciaroni e più raffinati. Da “Give Me Love Tonight” a “Tony’s Chord”, Milne largheggia con il falsetto in un clima festoso ma mai sbracato ed è bravo a irretire l’ascoltatore meno pignolo anche quando – come nella caracollante e flemmatica “Eugenics” – i ritmi si fanno blandi. Non mancano i diversivi strambi, dai languori caraibici e il clima da air-conditioned sun vagheggiato da Beck (“Perm”) alle dilatazioni estatiche non esenti da qualche sbadiglio (la conclusiva “You Won’t Remember This Feelings at All”), anche se le coordinate di massima non si allontanano mai troppo dalla gradevole norma di un sottofondo a base di velluto, luci soffuse, vertiginosi rinforzi corali e stucchi orchestrali ammiccanti ma leggeri, giostrati dal duo Fabulous/Arabia con la dovuta disinvoltura.

Proprio quando pareva ci si potesse abituare alle sue bizzarre deviazioni di stile, nel luglio del 2012 Lawrence Arabia riappare a sorpresa. Malcelando la propria insofferenza verso un moniker impossibile da promuovere sotto le forche caudine di Google, James Milne si rinnova nei panni dello “Sparviero” e porta avanti il suo adorabile personaggio da romanzo con ostinata devozione, attento per una volta anche a non calcare troppo il tratto. Lo scintillante novello Peter O’Toole dell’esordio, il rigoroso lupo di mare del capitolo secondo che sfoggiava senza imbarazzo i gradi del perfetto alfiere naïf, cedono ora il passo ad un criptico gentiluomo magrittiano. Tre maschere da anomalo seduttore, amante irregolare del frammento, del nascondino e di un crooning consumato quanto dispersivo. Eppure stavolta le cose sembrano girare in maniera diversa.
The Sparrow solletica con l’inatteso retrogusto di una sorpresa quanto mai gradita. Insieme un piccolo album, una grande prova di maturità e il laboratorio in cui dare sfogo alle proprie folgorazioni espressive, un po’ come era capitato con lo stravagante gioiellino a nome Reduction Agents. Senza ingenuità nel tocco in questo caso, senza futili baldorie da salotto. Con la discrezione di chi è nel giusto ma non ostenta, certifica le credenziali di un’anima cangiante e piacevolmente discontinua, elegante, bruciante per ironia e incline a un romanticismo d’altri tempi, quasi si trattasse del promettente braccio destro di Neil Hannon nella sua rincorsa impossibile alla deità di Ray Davies. E dietro le tonalità cupe dei fondali, nello spazio d’ombra sotto la tavola armonica del pianoforte, rifulge davvero la più limpida delle sue doti, la meticolosa opera di riciclo intelligente che James ha condotto a livelli di scaltrezza ed eclettismo semplicemente impressionanti. Per giunta senza rinunciare alle cadenze sornione o a un distacco che è pura apparenza. Concedere licenza di lenocinio alla propria vena decadente equivale a garantirsi un adeguato raccolto in quanto a canzoni da crepuscolo, così discrete e anacronistiche. Davanti alla console e sotto l’impeccabile tweed di oggi batte sempre il cuore arruffato del primo Lennon solista, assecondato in viso dallo sguardo contemplativo del poeta imbelle e sognatore, fin troppo disteso per poter passare da maledetto. Il sogno questa volta fotografa le sponde di un perfetto isolamento in cui perdersi, con la certezza di poterne riemergere appena il giorno si faccia propizio. Anche nel tedio di una pedalata verso la spiaggia, sotto i non buoni auspici di un corteo di nuvole nere, quel che davvero interessa Milne è l’istantanea di una solitudine beata, l’umore cristallizzato di un attimo che è suo e suo soltanto.
lawrencearabia_270x220_viiiInfettato e compiaciuto dal fascino fuori moda delle sue suggestioni, il ragazzo si adopera per sviare l’ascoltatore con più di un diversivo formale: annebbiandolo con il sinistro free-jazz dell’unico filler (“Dessau Rag”), titillandolo con il minimalismo frivolo di un vestito anni ’80 (“The 03”), dilatando la scrittura e plasmando con opportune rarefazioni strumentali un’aura space-orchestrale degna di Jason Pierce e dei suoi Spiritualized (“Early Kneecappings”). Oppure sfoggiando il medesimo tono tra il sommerso e lo svagato del disco di divertissement condiviso solo qualche mese prima con Fabulous, non proprio in un nuovo estemporaneo pastiche di retro-funk e pastoso modernariato seventies, ma con cadenze più languide, sinuosa architettura bossa nova ed un profluvio di fiati a inturgidire l’atmosfera (“The Bisexual”). Nel ventaglio di artifizi policromi l’unica costante resta la stoffa del bravo sarto, quella che non nega mai il conforto della freschezza. Anche le rare volte in cui torna a farsi sentire la chitarra, stesse tonalità estatiche e finemente nostalgiche. Armato di archi, ritmiche pencolanti e un falsetto da antologia, Lawrence Arabia modella in pochi passi una posa strabiliante dello struggimento (“Lick Your Wounds”), tralasciando le caricature del vagheggino estenuato per concentrare ogni attenzione sul ritorno in Nuova Zelanda trasmesso dal suo specchio (“The Listening Times”, bellissima). 
The Sparrow racconta proprio di questo precipitoso viaggio verso casa, in valigia gli incantesimi barocchi di Scott Walker, l’approccio pop cameristico di tanta musica britannica fine anni sessanta e l’investitura a figliol prodigo del Canterbury sound. Una fuga da Londra che ai più smaliziati ricorderà quella non meno repentina di Harry Nilsson e che, a ben vedere, riporta tutti gli indizi proprio sull’indimenticabile autore di “Aerial Ballett” e “Nilsson Schmilsson”. Glabro e incravattato o rustico nel suo bel trench: se sotto i boccoli biondi Milne non era mai riuscito a smarcarsi dall’impressionante somiglianza con il suo vero maestro, per non tradirsi se scoperto alla fonte non poteva che ricorrere ad un ultimo, estremo camuffamento. Pennello, colore bianco, un tocco di marketing esistenziale.

Ad oggi il tassello della definitiva consacrazione manca ancora, anche se i presupposti perché non tardi ad arrivare sembrano esserci tutti. Con i Brunettes incredibilmente scomparsi dai radar, i Ruby Suns persi mentre inseguivano le loro fumose chimere kitsch e altre matricole (Edmund Cake e i Pie Warmer, il già citato Connan Mockasin) indubbiamente promettenti, ma ancora acerbe, dovrebbe essere un facile pronostico che lo scettro che fu di Bats, The Clean e The Chills, nei tempi ormai mitici del “Dunedin sound”, passi presto nelle sue mani.

la_press_pic__1024_683Una previsione, questa, che sembra essersi avverata oggi, a quattro anni di distanza. Absolute Truth, quarta fatica intestata a Lawrence Arabia, marca infatti il debutto di James per la leggendaria Flying Nun, che in quanto a prestigio equivale a un traguardo onorevole ancorché più che legittimo, nel suo caso. Registrato nel remoto sobborgo industriale di Gracefield, da lui definito laconicamente unglamorous, segna il ritorno alla collaborazione con Mike Fabulous, la cui influenza non manca di farsi sentire nelle reminescenze dal Bowie della fase soul bianco, già presenti sull’estemporaneo Fabulous/Arabia, qui al netto dei frivoli languori di allora.
Il primo singolo, “Another Century”, l’ha scritto in un attimo nell’ospedale in cui è venuta al mondo la sua prima figlia, Isobel. L’inflessione è gioiosa, non potrebbe essere altrimenti, eppure più di un’ombra si scorge sullo sfondo, nelle luci votate alla dissolvenza che le parole raccontano. Non un brano sulla paternità o sulle profonde epifanie che ne deriverebbero, quanto sul senso di positività che una vita nuova comporta, e insieme sull’introspezione consuntiva che spesso accompagna un evento di tale portata emotiva. E in effetti sanno essere anche piuttosto amare le riflessioni sull’esistenza che affollano l’album ed esaltano la prospettiva di inguaribile contemplativo del neozelandese, specie quando ad aleggiare è il fantasma della giovinezza, con tutte le promesse e le verità assolute cui il titolo della raccolta allude.
Si parte con un esile voce e chitarra che sboccia alla distanza. Milne predilige tonalità acquerellate e arrangiamenti quanto mai oculati ma per nulla crudi. Evita con cura gli stravizi produttivi, più che altro, le adulterazioni formali. Dosa con gusto un occasionale svolazzo d’archi o un assolo della sua elettrica al velluto, e si aggrappa come mai prima d’ora al falsetto, in una prova vocale di rara versatilità. “The Old Dancefloor” è nostalgica ma disillusa, una polverosa evocazione che profuma ancora del modernariato del precedente The Sparrow, di piaceri sottili e rigorosamente analogici, di genuino fruscio musicale. “I Waste My Time” rilascia un’impressione non meno volatile, sospesa, ma dietro il pallido brio apparecchiato da questo talentuoso economo della canzone si coglie un’atmosfera placidamente mesta e trasandata. Con “O Heathcote” questo disincanto tende al plateale, pur senza sconfessare l’inclinazione all’understatement e a un’ironia al solito affilatissima. Le sfumature si diradano assieme ai contrasti, quasi annullati strategicamente da un biancore melodico che permea ogni spazio, mentre il Nostro canta in modo tanto mirabile e rilassato l’inservibilità dell’idealismo. Nel duetto latte e miele di “Mask Of Maturity” eccolo celebrare la propria finitezza e le proprie imperfezioni, caratteriali soprattutto, ma nel segno di un’accettazione che non si potrebbe immaginare più serena.
Così anche questo nuovo disco, forse il suo più efebico ed elusivo, si conferma decadente, senza tuttavia suonare di maniera.

1468446610938In “Brain Gym” si apprezza una leggerezza sconfinata, proposta come ideale rimedio alle comuni ansie del quotidiano. James recita la sua parte con fare compassato, accennando un sorriso fuggevole e affidandolo ancora in esclusiva alla morbidezza della sua sei corde. La dissertazione si fa poi formidabile nella più accogliente “Sweet Dissatisfaction” che, tra ottoni e coretti soffici ben oltre l’immaginabile, riesce sofisticata anche nel suo minimalismo, ed anche affrontando a viso aperto le inquietudini dei propri eccessi di bevitore. Il tocco di Fabulous si intuisce, come si diceva, ma il rischio della calligrafia e del patinato è eluso con perizia. Vale anche per “The Palest Of Them All”, che si serve di un’infinita grazia e di uno sguardo amabilmente disinteressato nel tratteggiare, con blanda simpatia, gli annoiati adolescenti dark di oggi, una sottocultura giovanile di cui il cantante ha ammesso candidamente di non sapere alcunché. L’intonazione rimane ancora una volta tersa e luminosa, mentre l’elettrica, lì nel suo angolino, si permette di citare con garbo i Cure di “Boys Don’t Cry”. Qui come altrove (il congedo di “What Became Of That Angry Young Man?”, ad esempio), Milne soppesa le parole e le note in modo squisito senza sprecare nulla, senza inzavorrare un flusso sonoro quasi elegiaco. E’ dai tempi del suo mito Harry Nilsson che un crepuscolo non appariva tanto dolce. Con l’ideale testimone ben saldo nelle sue mani e uno slancio artistico sempre più affidabile, c’è da scommettere che anche il traguardo di un’eredità tanto impegnativa sia finalmente alla sua portata.

Lasciato ai sinceri encomi per la più riuscita delle sue fatiche artistiche (pronta a fare incetta di nomination al Taite – l’equivalente kiwi del Mercury Prize – e ad aggiudicarsi il premio per il miglior alternative album del 2016), James Milne sceglie di battere fino in fondo il proprio ferro creativo e di alzare, se possibile, ancora un po’ l’asticella, lanciando via Kickstarter una raccolta fondi per un nuovo progetto non legato al contratto con la Flying Nun, da concretizzarsi con l’invio via mail ai sottoscrittori di un singolo in formato digitale entro l’ultimo giorno di ogni mese, per tutto il 2018. L’impellenza della scadenza fissa serve da motivazione per portare a compimento una collezione di brani che costringono James a un prolungato isolamento domestico, per poi ripagarlo con il concreto sostegno dei tanti musicisti connazionali che alla parabola di Lawrence Arabia hanno almeno in parte legato i loro nomi. Una comparsata per ogni compagno di viaggio quindi, su tutti l’ex-Brunettes Jonathan Bree che da una mano dietro la console, più il cameo d'eccezione del leggendario Van Dyke Parks, attratto dal progetto e invitato a animare al piano, alla fisarmonica e al contrabbasso il brano di congedo.

7e786a9fc36e9736f4f9482ac0afa4cdQuel che esce da Lawrence Arabia’s Singles Club è paradossalmente una sorta di concept involontario, una colonna sonora per l’attuale clima da basso impero, zeppa di riflessioni apparentemente umoristiche sul bigottismo di ritorno, sulle relazioni disfunzionali (migliorate dagli allucinogeni), sui non luoghi, le nuove dipendenze, distorsioni o mistificazioni nell’era dei social media, sulle compulsioni consumistiche e narcisistiche di una cultura occidentale incline al dinamismo involuto dei gamberi. Emblematico lo spunto offerto da “Everything's Minimal”, una spietata considerazione sul travisamento perverso delle proprie esistenze incessantemente promosso attraverso Instagram, simulando un’accurata armonia e una gioia che sono la pura negazione del caos e delle miserabili frustrazioni del quotidiano. Se l’abbrivio di “Solitary Guys”, con il falsetto ben calibrato e il glockenspiel che intavola un mesto carosello via via pavesato di nuove gemme, è pura arte del paradosso da un inguaribile contemplativo, il duetto con Hollie Fulbrook (Tiny Ruins) nella già citata “Everything's Minimal” non sposta di troppo le coordinate, appaltando il chamber-pop della casa a clavicembalo e autoharp nonché avvicinando le sofisticazioni di certo revival folk psichedelico oggi tornato di moda con prepotenza. Anche quando la ribalta spetta al vibrafono di Will Ricketts, il disco resta improntato al soffuso e al vaporoso, senza disdegnare di rallentare ulteriormente la già compassata andatura di Absolute Truth (I treated it like making a mixtape in extreme slow motion, spiega Milne a proposito della nuova raccolta) o di lavorare al meglio sul potenziale ipnotico delle proprie parsimoniose suggestioni.

 

Sostenuta in chiave ritmica da Liam Finn e nelle ombreggiature vocali da una rediviva Heather Mansfield, che dei Brunettes é stata l'anima femminile, “A Little Hate” recupera scampoli di cattiveria e disarmonia per ragionare di fanatismo (quello spicciolo “da tastiera”, ma anche quello eclatante che ha insanguinato la natia Christchurch), mentre riesce deliziosa e feroce nella sua amarezza la tirata di “People Are Alright”, che coniuga grazia e misantropia con un beffardo sorriso stampigliato in volto a mo’ di necessaria autodifesa. Il gioiellino “Everybody Wants Something” – titolo che riecheggia quello del film di Richard Linklater, di cui parrebbe sposare la leggerezza – alza ulteriormente la posta, con il Nostro coadiuvato a dovere dagli ex compagni Ryan McPhun (nei Reduction Agents) e Eliza-Jane Barnes (nei Barb) oltreché da una bella selezione di sintetizzatori vintage. E si va oltre, con “Meaningless Words” accasata dalle parti della lucida falsificazione pop dell'estemporaneo Fabulous Arabia (ma con fiati rubati più a certo eclettismo di marca Stereolab che non alla propria indole kitsch), e “Cecily” – dedicata alla prima dei due figli – che ricorda piuttosto il Matthew Melton revivalista del progetto coniugale Dream Machine, di cui rovescia peraltro le tentazioni manieriste con la giusta dose di ironia.

 

lawrence_arabia_jpg_340x340_q85Grazie a quel suo crooning etereo e a un'intelligenza che permette a questa dozzina di nuovi brani di funzionare ben al di là del mero, superbo, esercizio formale, il lusinghiero traguardo del predecessore è agilmente bissato. Di più, ogni incubo personale del sempre cerebrale Milne finisce per trascolorare in sogno (come nel mezzo capolavoro “Oppositional Democracy” o nella squinternata “ninnananna per adulti nevrotici” di “Just Sleep”, tra oboe e clarinetti alticci, una ripresa dalla serie di podcast “The Mysterious Secrets of Uncle Bertie's Botanarium”, realizzata nel 2016 assieme a Jemaine Clement dei Flight Of The Conchords) con la sola eccezione di quello “contagioso” dell'omonima strumentale che, all'inverso, risuona umido e realmente inquietante come la nostra disastrata attualità.

Lawrence Arabia

Discografia

LAWRENCE ARABIA
Lawrence Arabia (Lil'Chief, 2006)7
Chant Darling(Bella Union, 2009)6,5
The Sparrow (Bella Union, 2012)7
Absolute Truth (Flying Nun, 2016)7,5
Lawrence Arabia's Singles Club (Honorary Bedouin, 2019)7,5
THE REDUCTION AGENTS
The Dance Reduction Agents(Lil'Chief, 2006)7,5
FABULOUS/ARABIA
Unlimited Buffet(Jakarta, 2011)6,5
BARB
BARB(Yep Roc, 2010)6,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Talk About the Good Times
(videoclip, da Lawrence Arabia, 2006)

Waiting For Your Love
(videoclip, da The Dance Reduction Agents, 2006)

The Pool
(videoclip, da The Dance Reduction Agents, 2006)

Apple Pie Bed
(videoclip, da Chant Darling, 2009)

Auckland CBD Part Two
(videoclip, da Chant Darling, 2009)

 

The Beautiful Young Crew
(videoclip, da Chant Darling, 2009)

I’ve Smoked Too Much
(live, da Chant Darling, 2009)

Alcoholic Darling
(videoclip, da BARB, 2010)

Not a Bird
(videoclip, da BARB, 2010)

Travelling Shoes
(videoclip, da The Sparrow, 2012)

Listening Times
(videoclip, da The Sparrow, 2012)

Early Kneecappings
(live, da The Sparrow, 2012)

The 03
(live, da The Sparrow, 2012) 

Another Century
(videoclip, da Absolute Truth, 2016)

A Lake
(videoclip, da Absolute Truth, 2016)

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