Un brunetto e una brunetta

Jonathan è all'epoca in fissa per il pop orchestrale di stampo spectoriano e per le eleganti architetture barocche stile Brian Wilson/Van Dyke Parks, ma la tastiera Juno nella dotazione di Heather orienta i primissimi esercizi della coppia verso un synth-pop di marca new wave, ispirato a Blondie e ai Cars. A determinare un nuovo repentino cambio di direzione è però un episodio del tutto fortuito occorso all'inizio del 1998, ovvero l'incontro con Celia "Pavlova" Mancini, cantante in una delle formazioni di punta dell'alternative neozelandese, i King Loser, in scuderia alla Flying Nun ma di fatto giunta al capolinea dopo aver licenziato tre album particolarmente apprezzati dalla critica. L'acquisto a poco prezzo dell'organo Yamaha della band in smobilitazione sposta il fronte espressivo verso un più canonico pop sixties, ed è questo l'indirizzo di riferimento dell'Ep che i due registrano sul quattro piste del cugino Mark e che diffondono in pochissime copie (appena una trentina, pare) su cassetta e sette pollici nel corso dell'anno. Mai più ristampato e oggi di fatto introvabile, questo Mars Loves Venus diverrà presto materiale per collezionisti.

Il reclutamento del bassista Mike Hall (già nella band hardcore Balance), del batterista Kari Hammond e, soprattutto, del registratore sedici tracce a bobina di quest'ultimo, offre un ulteriore slancio ai Brunettes, che ritrovano gli stimoli necessari a rimettere mano al tanto materiale già scritto e cestinato. Il disco viene così inciso per la seconda volta, direttamente nell'appartamento di St. Kevin's Arcade a Auckland in cui Jonathan vive. Ancora una volta si frappone tuttavia un ostacolo alla pubblicazione, perché nonostante gli sforzi autopromozionali il gruppo non riesce a trovare una label interessata. Passano così alcuni mesi finché il cantante, che lavora nel negozio di dischi Marbeck's per alimentare finanziariamente il proprio sogno, stringe amicizia con Scott Mannion, frontman di un paio di compagini indie-pop della zona (Polaar e Plasticene), il quale mette a disposizione il proprio mixer e convince Bree a fondare assieme a lui l'etichetta che si occuperà di pubblicare l'agognata opera prima dei Brunettes, nonché quella della formazione che proprio Mannion ha da poco messo in piedi, i Tokey Tones.

Ad aprire il disco come meglio non si potrebbe è proprio "The Moon In June Stuff". Il fruscio del giradischi e una chitarra incapace di scegliere tra ruvidezza e tenerezza preparano la ribalta per l'ammiccante cinguettio di una Heather sensuale e monella a un tempo. È però quell'ambientazione sonora curatissima a mimare i fasti di un'epopea canzonettara caduta suo malgrado nel dimenticatoio, tra crooning languido in bello spolvero e marcature vintage particolarmente convincenti, a spaziare dalle parti del surf-pop, del doo-wop e del girl-group, seppur in una versione "da cameretta". L'insieme è tanto leggero quanto irresistibile e lancia subito in orbita Holding Hands, Feeding Ducks per tutti gli eventuali cultori del modernariato di classe. Il secondo gettone, "Cupid", rincara immediatamente la dose grazie a un'elettrica al velluto e ai suoi dolci incanti pop sixties. Il duetto ruffianotto ma trascinante tra i due cantanti - la ninfetta Mansfield e il ganzo Bree - contribuisce a sublimare la meraviglia di questo delicato diorama. Se si tratta di twee - e dal congedo di "Tell Her" parrebbe di sì - non è banalmente svenevole, gli arrangiamenti sono equilibrati ma sontuosi (la sola Heather suona glockenspiel, armonica, organo e marimba, Mick Hall l'armonium e non manca un violoncello) e dietro l'ammaliante patina del divertissement di genere si celano estro e ambizione di tutto riguardo.

In fin dei conti anche i titoli - "Super Eight", l'estemporaneo bozzetto ragtime volturato sunshine-pop di "Jukebox", ennesima prova di destrezza stilistica mai inutilmente sopra le righe e offerta anzi con il candore dei balocchi semplici, non artefatti - non fanno che moltiplicare i riferimenti a un immaginario che ormai vive più che altro in forma di revival e che in questo esordio trova una sincera e rispettosa adesione da devoti, senza ammiccamenti di comodo. Heather danza con leggiadria come una novella Ambrosia Parsley, alternandosi (e armonizzando con gusto) tra un'inflessione elegiaca e angelicata, quella più frivola e maliziosa della ragazza ye-ye e un'altra più adulta e sensuale, opzione peraltro ancora minoritaria in questo frangente.

Ne esce un disco a suo modo frugale ma sfizioso, amorevolmente confezionato da Jonathan e refrattario alle esagerazioni teatrali o formali, dove non si rileva un solo duetto del tutto sovrapponibile a un altro (e il falsetto di Bree nella più barocca "Mafioso" lo dimostra). Così al primo lavoro importante, magari senza volerlo, i Brunettes già offrono un caposaldo per l'indie-pop del nuovo decennio: l'autorevolezza alle prese con i più disparati cliché resta la più grande sorpresa di un'operina apparentemente poco ambiziosa eppure irrinunciabile, qualora si vada in solluccheri con certe sonorità del passato.
In una scena locale asfittica e tutta orientata al revival anni Settanta (dopo quella precedente, di stampo techno-dance, ormai in disgrazia), la proposta dei Brunettes è come una ventata d'aria fresca. Per fare ancora più impressione, la band è però promossa come se fosse soltanto un duo, e ad alimentare questa impressione contribuisce il frequente avvicendamento degli altri membri della combriccola. Deluso dalla scarsa esposizione, Mike Hall lascia per unirsi ai Pluto e ai Dimmer e Kari Hammond fa altrettanto scegliendo i Boxcar Guitars. A rimpiazzarli, seppur temporaneamente, sono Gerald Stuart, Nick Harte e, soprattutto, un giovanissimo James Milne, ancora lungi dall'avventurarsi in una carriera solista sotto il moniker Lawrence Arabia. Primo frutto del riassestamento è l'Ep Boyracer, in uscita nella primavera del 2003 ad appena sei mesi dall'esordio su lunga distanza.

Se Marte incontra Venere

La pur breve esperienza inglese lascia comunque l'amaro in bocca a Bree, scottato dall'etichetta twee che la stampa britannica ha appioppato alla band e che il cantante ignorava, quantomeno nella sua accezione più deteriore o limitante. Anche il ritorno in patria non è proprio dei migliori, viste le defezioni di Harte (che va a fondare gli Shocking Pinks) e Stuart (che si unisce ai Deja Voodoo). Un batterista diciannovenne che aveva contattato la Lil' Chief addirittura dalla California, Ryan McPhun, è arruolato come rimpiazzo sia per i Brunettes che per i Tokey Tones, prima di dar vita alla sua personale creatura, The Ruby Suns, che entrerà a far parte della scuderia di Bree e Mannion nel 2004, direttamente tra i nomi di punta.
Frattanto i Brunettes hanno da parte una buona quantità di materiale nuovo, registrato da Jonathan al Ghetto nei frangenti di stacco tra un tour australiano e l'altro. Per la prima volta il dispotismo del frontman è limitato e si punta a dare alla compagine una più evidente fisionomia di gruppo: una canzone viene scritta dalla sola Heather, un'altra da Milne (che si ritaglia anche un ruolo secondario da corista). Intitolato come l'oscuro Ep autoprodotto di sei anni prima, Mars Loves Venus esce nel luglio del 2004, distribuito da Lil' Chief in Nuova Zelanda, Reverberation in Australia e Capitol in Europa e Nord America.

L'indole briosa, se non altro, vale come incentivo e funziona abbastanza. Si apprezza un certo gusto eccentrico in arrangiamenti insoliti, tra esotismo e ricercatezza elegante, ed è in episodi più fuori registro come "Whale In The Sand" che i Brunettes tornano a convincere in merito alla bontà della loro proposta, evidenziando una vena eclettica e qualche bizzarria che diverranno presenza fissa nei lavori firmati da Milne, in solitaria o con il suo estemporaneo progetto di gruppo, i Reduction Agents.
Proprio quell'unica canzone scritta da Lawrence Arabia e prestata alla splendida voce della Mansfield, "You Beautiful Militant", con la sua inconfondibile aura decadente e la malia crepuscolare si impone come uno dei gioiellini dell'album: Bree si riserverà di rendere il favore all'amico con l'inevitabile ospitata in uno dei migliori titoli ("Last Night's Love") di quell'unico album pubblicato dai Reduction Agents. Se in "Loopy Loopy Love" l'incontro di trame acustiche, ceselli elettrici e marcature sintetiche riesce particolarmente equilibrato e divertente, "No Regrets" torna al chamber-pop terso e minimalista (anticipando l'introversione delle plumbee fatiche soliste di Bree) e "Leonard Says" fa altrettanto con il candore e la nudità di un duetto omeopatico, al grado zero, "Your Heart Dies" sceglie di ammiccare al folk-pop appalachiano - le cui azioni in ambito indie stanno guadagnando forti consensi - mentre "These Things Take Time" è un divertissement, composto dalla cantante, che profuma ancora di stravaganza, sulla scorta delle chicche fuori copione del passato e dell'imminente futuro (le tenere stramberie dell'Ep successivo).

Alla prova del nove Mars Loves Venus si presenta quindi come un bel caleidoscopio e rivela le tante potenzialità espressive di una formazione assai meno chiusa nel mero revival che i primi passi, inevitabilmente, sembravano suggerire. E questo nonostante l'evidente questione sentimentale all'origine di "The Record Store", brano dedicato all'età dell'oro della discografia nonché a un fenomeno come il collezionismo musicale, che promette di tornare in auge opponendo una strenua resistenza alle omologazioni spersonalizzanti del digitale, ma anche deliziosa pagina autobiografica (si guarda con nostalgia ai giorni spesi da Jonathan in qualità di commesso da Marbeck's) che riporta con una certa prepotenza dalle parti del romanticismo infettivo di Holding Hands, Feeding Ducks.
Il boss della Sub Pop, Jonathan Poneman, nel frattempo non ha smesso di tenere d'occhio i ragazzi. Volato a Auckland appositamente, propone di ristampare l'intero catalogo della Lil' Chief per promuoverlo negli Stati Uniti a mo' di testimonianza della rinascita dell'indie-pop neozelandese. Del lotto fa parte anche il mini When Ice Met Cream, una golosa raccolta di outtake del lustro precedente, in uscita nel 2005.

Quelli degli Ep sono inequivocabilmente i Brunettes delle finezze che non ti aspetti, ampollosi e fuori tempo massimo per scelta, in evidente licenza dalle opzioni di un genere di riferimento scaltro o ammiccante e chiusi in un loro mondo di fantasia: soffice, fotografato in tonalità flou eppure, a modo suo, adorabile e disinvolto quanto basta. Certo, questo indirizzo espressivo, a tratti anche incantevole come certi accuratissimi diorama (la meraviglia tutta ninnoli della conclusiva "Goodnight Little Cherub Rock"), prefigura un vicolo cieco ed è esattamente questa la direzione che il gruppo mostra di voler seguire.

Il salto dai piccoli club ai palazzetti con migliaia di spettatori non pare cosa da poco, ma è soprattutto il carisma della Mansfield a fare la differenza, tra una smargiassata (come presentare i compagni sulle note del classico anni Sessanta "The Name Game") e una gara di ballo per il pubblico (con i cd messi in palio come premi). Il successo è tale che i Rilo Kiley (dell'amica Jenny Lewis) opzionano i neozelandesi per un analogo tour di due mesi e, anche dopo la conclusione, Jonathan posticipa ulteriormente il rientro a casa per continuare a crogiolarsi nel proprio American dream.
È una fase piuttosto confusa per il frontman, tra stravizi con sostanze illecite e sprofondi di degrado personale. Ospitato per un certo tempo a Los Angeles da altri musicisti, si adatta presto a vivere come un homeless nel cimitero in cui è sepolto Sam Cooke. Orripilata dalle sue condizioni, la manager gli spedisce alcune centinaia di dollari, che bastano appena per trascorrere qualche settimana in un motel di Pasadena. Trasferitosi a New York, Bree inizia a vivere in un seminterrato di Brooklyn e cade in depressione: scaricato dalla fidanzata che si è stufata di aspettarlo, deve incassare anche le defezioni dei migliori collaboratori con cui gli sia mai capitato di fare musica, Ryan McPhun e James Milne, che proprio nel 2006 inaugurano i progetti Ruby Suns, Lawrence Arabia e Reduction Agents ma non gli negano comunque una mano per le imminenti registrazioni del terzo Lp della band. Il sostegno della Sub Pop si concretizza con la firma dell'agognato contratto e il rientro del cantante a Auckland rende possibile un risultato che la sventatezza dell'artista neozelandese pareva aver messo seriamente a repentaglio.
Un Icaro indie-pop

Impossibile non riconoscere nell'apertura di "Brunettes Against Bubblegum Youth" - presa di distanza fin troppo ironica da certe sonorità dei loro primi lavori - i tipici umori dei Polyphonic Spree, tra cori pomposi, fiati e battiti di mani. Pur restando un caso isolato, la zuccherosa "B.A.B.Y." segna la nuova tendenza della band: meno lo-fi, meno ricercatezze vintage, una virata brusca verso i Settanta e il pop sinfonico. La sofisticazione (Cosmetics) del proprio stile (Structure) era evidentemente una scelta programmatica. Se il risultato è ancora soddisfacente, il merito è del talento dei musicisti, bravi a evitare sbavature pure nelle nuove vesti e onesti nel confessare anche il contestuale riferimento alla moderna industria della musica pop e al fatto che essa necessiti sia della "struttura" commerciale che dei "cosmetici" della giovinezza o della coolness, la capacità di presentarsi alla moda per arrivare a risultati più presentabili. Con l'eccezione di "If You Were Alien", dove gli sha-la-la si sprecano e l'easy-listening super-catchy stucca inevitabilmente, il disco è molto piacevole. Gli episodi migliori sono quelli in cui torna a prevalere un mood intimo e la voce di Heather scalda davvero il cuore: la conclusiva "Structure And Cosmetics" e "Small Town Crew", quest'ultima in perfetto stile Camera Obscura.

Regna una grande varietà, tra una placida "Credit Card Mail Order" che fa tanto Ladybug Transistor, il basso profilo della splendida "Wall Poster Star" e le melodie chamber-pop ad alto tasso glicemico di "Obligatory Road Song", trasognata e quasi ballabile.
Dopo gli scivoloni del biennio precedente, la band sembra sul punto di fare breccia. Bree dichiara nelle interviste che lui e Heather non sono per nulla intimoriti dall'eventualità del successo, anche perché alle loro spalle c'è tanta gavetta, e l'interesse per il loro lavoro è maturato lentamente (e gradualmente) negli anni. Non si tratta della classica over-night sensation, eppure col senno di poi l'esito non sarà poi troppo differente. Tra defezioni e new entry (quella di Jamie Power dei Raylenes l’unica significativa) il gruppo si imbarca in nuovi tour, come headliner o a rimorchio di Clap Your Hands Say Yeah e Broken Social Scene. L'appoggio della Sub Pop viene meno sul più bello, visto che l'etichetta si rifiuta senza alcuna ragione di promuovere l'innocuo video di "Her Hairagami Set" negli Stati Uniti, ufficialmente per l'evocazione dei fatti del liceo Columbine (nella clip si vede una marionetta che pianifica un attentato alle acconciature delle compagne di scuola con un asciugacapelli). Non è certo un bel segnale, presto bissato dalla cancellazione di una serie di date americane a supporto di Beirut sempre per scelta unilaterale della label. La manager, frattanto, avendo fiutato che il vento è cambiato, si congeda dai Brunettes per dedicarsi all'organizzazione dell'appendice londinese del Sundance Film Festival, opzionata nientemeno che da Robert Redford.

Venendo a Paper Dolls, preme sottolineare come la decisa virata cui si è fatto cenno assecondi, radicalizzandole, certe tentazioni sintetiche già espresse negli ultimi capitoli dell'avventura del collettivo e che mirano forse a ritagliarsi uno spazio maggiore del dovuto (da alleggerimento estemporaneo e niente più ad album vero e proprio con tutti i crismi) nella carriera dei Brunettes. Chi abbia amato la genuina vena sixties di Holding Hands, Feeding Ducks, o il candore intelligente di Boyracer e When Ice Met Cream, fa bene a girare al largo, impresa peraltro relativamente agevole visto che l'album è distribuito ben poco e ottiene rarissime recensioni. Come suggerito dal titolo, l'aspetto più evidente di questa quarta fatica è la fragilità della sua natura, una leggerezza che in termini di songwriting evoca impietosamente un'idea di bozzetto senza sviluppi, di spunto magari anche interessante ma lasciato appunto sulla carta. Anche la copertina, in questo caso come in quelli precedenti, vale più di mille parole: i due musicisti disegnati come pallide figurine prive di anima, polpa, sangue, colore. La preoccupante assenza di sostanza annunciata dalla cover trova immediato riscontro nella musica, non occorre che un ascolto distratto.

Pezzi come "Connection", "Magic (No Bunny)" o "The Crime Machine" sono cloni fin troppo leggeri delle consuete trame melodiche della band, diversivi banalotti, simpatici e poco incisivi, con addosso la classica patina di ordinaria amministrazione, di creatività al minimo sindacale. Anche se il doping elettronico non riesce mai a convincere del tutto, valutate sotto questa luce, alcune delle canzoni dell'album si meritano comunque una benevola assoluzione. L'iniziale "In Colours", per dire, riesce anche piuttosto carina, sulla falsariga pop saltellante della precedente fatica su lunga distanza. Gioca con taglio minimalista le proprie carte, soprattutto nell'uso parco e calibratissimo delle chitarre, regalando conferme preziose nel pimpante incastro delle due voci, nel synth guizzante e in un suono sempre piacevolmente avvolgente. Non mancano momenti in cui le qualità dei due neozelandesi sembrano a fuoco nonostante la veste sbarazzina. La title track replica con ostinata aderenza ai tipici cliché malinconici e ruffiani il clima e la malia un po' drogata dei Brunettes da Mars Loves Venus in poi, con arrangiamenti sintetici funzionali che non vanno mai sopra le righe.

La nausea solista

L'ambientazione appare subito angusta e, nell'oscurità pulsante di questo tetro scenario, Jonathan si spende in un'invocazione che mima la deriva del senso, una solitudine in odor di disperazione, e fa esclusivo affidamento sulla sua voce (pure così centellinata), su minimi interventi percussivi e del vibrafono. Strascichi dello sfortunato naufragio della sua creatura? Evidentemente sì, ma anche la consapevolezza di voler prendere le distanze dagli spensierati rituali pop per rifugiarsi in un'oasi intimista che possa funzionare, nel contempo, alla stregua di un personale esorcismo.
Da "Booty Call" in poi, l'umore si conferma umbratile (non solo rispetto allo standard), dimesso il tono, anche se le suggestioni sono in un certo senso le medesime di ieri. Certo, dove fiorivano sdolcinate tastiere ora risuona un organetto lugubre e compunto, il taglio si è fatto calibrato in un'ottica minimalista che si serve del rigore e dell'understatement come dei capisaldi di un linguaggio nuovo per l'artista neozelandese. In "Bored At A Mall" anche il titolo gioca la sua parte nel rincarare la dose. Le cadenze blande di questo synth-pop grigiastro e claustrofobico non sconfessano nella forma gli artifici già largamente impiegati dal Nostro in chiave frivola e vanno lette come una narcotica variazione sul tema delle dolci ballate catchy dei Brunettes.

Un disco indie-pop può essere depressivo? Con The Primrose Path Jonathan pare risoluto nell'accreditare le chance di questa eventualità. Gli sbuffi vaporosi della title track esaltano il suo cantato affilato ed elegiaco, ancora all'osso in quanto a lirismo in questa sua incarnazione quasi a cappella che affascina solo nella reiterazione di ascolti pazienti, senza forzature e senza fronzoli superflui. Il ruvido sbocciare della sua voce non deve trarre in inganno: è un disco che sa e che parla di afflizione, questo, che ha la morte nel cuore. Lontanissime evocazioni beat, alimentate forse anche dal ritratto fotografico piazzato in copertina, non fioriscono mai del tutto nella cantilena di "Crippled Darling", che pure una strizzatina d'occhio agli Zombies più compassati la lancia. La posa languida e imbronciata non viene accantonata fino alla fine, per quanto qualche concessione alla leggerezza sia occasionalmente contemplata (nella misura di un coretto o di un arpeggio marginali, ugualmente dimentichi del tepore del sole). Il congedo di "Boxes" rappresenta comunque l'apogeo di questo sofferto, persino morboso, romanticismo.

Appena cinque mesi più tardi, viene pubblicata anche l'opera seconda di Bree, A Little Night Music, il cui orizzonte espressivo presenta analogie persino imbarazzanti con l'afflizione che anima il lavoro della Nikkel.
Ma già l'immagine scelta per la nuova copertina rappresenta, di per sé, tutto un programma. I suoni le prestano la spalla perché l'abisso si è fatto ancora più fondo e la melodia danza nel baratro scuro come un flebile raggio di luce. La deriva minimalista e gli sprofondi umorali di Bree raggiungono con "Drones & Satellites" la loro personale fossa delle Marianne, rischiarata solo da radi bagliori disarmonici simili alle pulsanti manifestazioni dei mostruosi pesci delle profondità oceaniche: un'operazione anche affascinante nel suo estremismo, che richiede tuttavia il giusto stato d'animo nell'ascoltatore per poter essere apprezzata senza contraccolpi emotivi.
L'album resta improntato a questo nichilismo disadorno ma scintillante, con Jonathan che di fatto replica le proprie canoniche formule indie-pop rallentandole fino alla catatonia e riducendole a una disarmante nudità che solo la reiterazione può aiutare ad amare. Se appare innegabile lo scarto siderale dal twee sbarazzino dei primi passi con il gruppo, non è meno evidente l'affinità stilistica con l'opera della compagna, specie per il frequente ricorso ai sintetizzatori e ai sottili artifici space-pop in cui queste nuove canzoni sono dolcemente affogate.

Con ogni probabilità l'indie-pop non ha mai dato forma a un disco altrettanto deprimente e malato, seppur non del tutto privo di attrattive o incanti. La plumbea nostalgia di Bree sembra droga tagliata con zucchero raffinatissimo. L'effetto è straniante, perché il crooning è sabotato nella sua naturale inclinazione romantica e ci viene offerto in una variante ben più algida del consueto, da una distanza apparentemente minima eppure incolmabile ("Weird Hardcore", "Blur").
Il 2018 segna il ritorno da protagonista. Le maschere di spandex adottate per le recenti esibizioni dal vivo e per un nuovo video pure piuttosto fortunato, quello del singolo “You’re So Cool”, dovrebbero aver invertito a sorpresa l’inerzia offrendo insperati scampoli di visibilità a Bree, complice il provvidenziale assist di St. Vincent che ne ha scopiazzato senza troppi complimenti il concept in occasione del suo ultimo show al Coachella. La risalita emotiva, a dirla tutta, non tiene però il passo di quella legata ai consensi perché il Nostro si ripresenta col consueto crooning baritonale nella penombra, abile a trarre la massima resa dal minimo contributo di ogni strumento: cantato introverso, percussioni parche, una chitarra che gioca a nascondino e un synth che si accontenta di lasciare occasionali sgommate sulla tela. Completamento del percorso introspettivo avviato con i primi due tasselli dell’avventura solista, Sleepwalking è un disco meno claustrofobico dei predecessori, scritto con la stessa consumata propensione al melò di un Neil Hannon e superbamente arrangiato assieme a un manipolo di collaboratori. Per l’incantevole anacronismo della proposta e la consolidata qualità di un chamber-pop che non disdegna modiche orchestrazioni barocche, richiama come più diretto riferimento un altro “difficile terzo album” brillantemente plasmato, il “The Sparrow” dell’amico (e per qualche tempo compagno di squadra) Lawrence Arabia. Come suggerisce l’esemplare “Boombox Serenade”, non ci si è scostati dalla plumbea declinazione di certo cantautorato sixties – chansòn in testa – con il consueto stampo disarmonico a beneficiare del fascino dell’inquietudine e dello squilibrio.
E poi eccola “You’re So Cool”, minimalista ma incisiva per via degli umbratili sinfonismi in versione tascabile. Ancorché angoscioso, il camerismo di Bree si è fatto meno angusto e sembra sconfessare l’asfittico radicalismo di ieri, sostituendone l’impronta con un’essenzialità pure pavesata di gemme che lasciano intendere una possibile, prossima fioritura. Il mood è grave e imbronciato ma per una volta l’austerità non si traduce in sterile chiusura perché Jonathan lascia sempre intravvedere, sui refrain soprattutto, degli spiragli preziosi. Riesce piuttosto stuzzicante, per dire, il duetto con la ninfetta Clara Viňals in “Say You Love Me Too”, altra prova oligominerale. Certo quel che resta del suo indie-pop, oggi melodicamente scavato all’osso, conserva più che altro delle spettrali sembianze e vale forse più per la curiosità che suscita piuttosto che per effettivi slanci. Si conferma una cervellotica esternazione, ricca di un suo crudo incanto ma un tantino algida e respingente. Anche queste nuove canzoni mai davvero agevoli (“Roller Disco”, la scheletrica ma sensuale “Valentine”, persino rinfrancante nel suo candore) troveranno comunque il modo per farsi amare. I due titoli che ospitano la Nikkel sono forse quelli che presentano le maggiori assonanze nei confronti dei Brunettes, seppur nella variante frigidina delle collaborazioni sotto il moniker della fanciulla. Tra le due, meglio “Plucking Petals”, che rispolvera certe sinistre evocazioni e il registro fiabesco della prima Princess Chelsea.
Se con “Coke” l’impronta classicista si fa più ortodossa e ariosa, il congedo di “Fuck It” lascia trasparire l’ombra di un sorriso dietro al broncio d’ordinanza, con uno spavaldo (e sontuoso) synth-wave di chiarissima ascendenza eighties che idealmente chiude il cerchio a una parabola artistica partita dai medesimi territori. In attesa di ulteriori sorprese discografiche, non resta che aggiornare la misura del nuovo exploit di Bree, confinato su Youtube anche stavolta, suo malgrado. Sleepwalking è al momento l'ultimo tassello di una discografia che il cantante neozelandese avrebbe forse sperato di condurre su ben altri registri (e con altri riscontri) ma che il cinismo dell'industria discografica, le immancabili avversità operative e qualche scelta avventata hanno condizionato con innegabile durezza.