I'm not enlightened
There was no enlightenment
We're living a nightmare
So why am I still here?
Lo avevamo lasciato ai sinceri encomi per la più riuscita delle sue fatiche artistiche, quell'“Absolute Truth” che, non per nulla, avrebbe poi fatto incetta di nomination al Taite – l’equivalente kiwi del Mercury Prize – aggiudicandosi il premio per il miglior alternative album del 2016. Non contento, James Milne aka Lawrence Arabia ha scelto di battere fino in fondo il proprio ferro creativo e di alzare, se possibile, ancora un po’ l’asticella, lanciando via Kickstarter una raccolta fondi per un nuovo progetto non legato al contratto con la Flying Nun, da concretizzarsi con l’invio via mail ai sottoscrittori di un singolo in formato digitale entro l’ultimo giorno di ogni mese, per tutto il 2018. L’impellenza della scadenza fissa è servita da motivazione per portare a compimento una collezione di brani che hanno costretto James a un prolungato isolamento domestico, salvo poi ripagarlo con il concreto sostegno dei tanti musicisti connazionali che alla parabola di Lawrence Arabia hanno almeno in parte legato i loro nomi.
Una comparsata per ogni compagno di viaggio, quindi, su tutti l’ex-Brunettes Jonathan Bree che ha dato una mano dietro la console, più il cameo d'eccezione del leggendario Van Dyke Parks, attratto dal progetto e invitato a animare al piano, alla fisarmonica e al contrabbasso il brano di congedo. Quel che è uscito da “Lawrence Arabia’s Single Club” è paradossalmente una sorta di concept involontario, una colonna sonora per l’attuale clima da basso impero, zeppa di riflessioni apparentemente umoristiche sul bigottismo di ritorno, sulle relazioni disfunzionali (migliorate dagli allucinogeni), sui non luoghi, le nuove dipendenze, distorsioni o mistificazioni nell’era dei social media, sulle compulsioni consumistiche e narcisistiche di una cultura occidentale incline al dinamismo involuto dei gamberi. Emblematico lo spunto offerto da “Everything's Minimal”, una spietata considerazione sul travisamento perverso delle proprie esistenze incessantemente promosso attraverso Instagram, simulando un’accurata armonia e una gioia che sono la pura negazione del caos e delle miserabili frustrazioni del quotidiano.
Se l’abbrivio di “Solitary Guys”, con il falsetto ben calibrato e il glockenspiel che intavola un mesto carosello via via pavesato di nuove gemme, è pura arte del paradosso da un inguaribile contemplativo, il duetto con Hollie Fulbrook (Tiny Ruins) nella già citata “Everything's Minimal” non sposta di troppo le coordinate, appaltando il chamber-pop della casa a clavicembalo e autoharp nonché avvicinando le sofisticazioni di certo revival folk psichedelico oggi tornato di moda con prepotenza. Anche quando la ribalta spetta al vibrafono di Will Ricketts, il disco resta improntato al soffuso e al vaporoso, senza disdegnare di rallentare ulteriormente la già compassata andatura di “Absolute Truth” (I treated it like making a mixtape in extreme slow motion, ha spiegato Milne a proposito della nuova raccolta) o di lavorare al meglio sul potenziale ipnotico delle proprie parsimoniose suggestioni.
Sostenuta in chiave ritmica da Liam Finn e nelle ombreggiature vocali da una rediviva Heather Mansfield, che dei Brunettes è stata l'anima femminile, “A Little Hate” recupera scampoli di cattiveria e disarmonia per ragionare di fanatismo (quello spicciolo “da tastiera”, ma anche quello eclatante che ha insanguinato la natia Christchurch), mentre riesce deliziosa e feroce nella sua amarezza la tirata di “People Are Alright”, che coniuga grazia e misantropia con un beffardo sorriso stampigliato in volto a mo’ di necessaria autodifesa.
Il gioiellino “Everybody Wants Something” – titolo che riecheggia quello del film di Richard Linklater, di cui parrebbe sposare la leggerezza – alza ulteriormente la posta, con il Nostro coadiuvato a dovere dagli ex-compagni Ryan McPhun (nei Reduction Agents) ed Eliza-Jane Barnes (nei Barb) oltreché da una bella selezione di sintetizzatori vintage. E si va oltre, con “Meaningless Words” accasata dalle parti della lucida falsificazione pop dell'estemporaneo Fabulous Arabia (ma con fiati rubati più a certo eclettismo di marca Stereolab che non alla propria indole kitsch) e “Cecily” – dedicata alla prima dei due figli – che ricorda piuttosto il Matthew Melton revivalista del progetto coniugale Dream Machine, di cui rovescia peraltro le tentazioni manieriste con la giusta dose di ironia.
Grazie a quel suo crooning etereo e a un'intelligenza che permette a questa dozzina di nuovi brani di funzionare ben al di là del mero, superbo, esercizio formale, il lusinghiero traguardo del predecessore è agilmente bissato. Di più, ogni incubo personale del sempre cerebrale Milne finisce per trascolorare in sogno (come nel mezzo capolavoro “Oppositional Democracy” o nella squinternata “ninnananna per adulti nevrotici” di “Just Sleep”, tra oboe e clarinetti alticci, una ripresa dalla serie di podcast “The Mysterious Secrets Of Uncle Bertie's Botanarium”, realizzata nel 2016 assieme a Jemaine Clement dei Flight Of The Conchords) con la sola eccezione di quello “contagioso” dell'omonima strumentale che, all'inverso, risuona umido e realmente inquietante come la nostra disastrata attualità.
(30/07/2019)