Alfiere inglese di quell’implicito movimento di riforma del pop-psichedelico che qualche tempo fa ha proposto all’attenzione generale nomi interessanti come Richard Swift, Kelley Stoltz e Lawrence Arabia , il polistrumentista mancuniano Alan Roberts è stato forse, tra tutti loro, quello più ingaggiato dai sedicenti creativi delle agenzie pubblicitarie o dei network televisivi. Freschissimo con le sue liriche al grado zero – filastrocche infantili perfette per i jingle pubblicitari – o con la sua profferta di chitarrine in bassa fedeltà, sporcate appena da un’elettronica colorata e umanistica, lo si è intercettato spesso con lo pseudonimo di Jim Noir in questa o quella serie per trentenni e in una miriade di spot, oltremanica soprattutto ma anche dalle nostre parti (“Earnie Meanie” e la deliziosa “Computer Song” potreste ricordarle anche senza le immagini delle Adidas o della Volkswagen di turno). Descritto un po’ ovunque, ai tempi del fortunato esordio “Tower Of Love” (2005), come un genietto del “pop in technicolor”, da allora il songwriter non ha saputo far compiere al proprio felice talento di alchimista della melodia il salto di qualità che sarebbe servito per garantirsi una fama non così effimera.
Dopo aver coltivato per anni un’ipotesi sonora che, non senza azzardo, potremmo spingerci a definire chambertronica, il Nostro ripiega ora con il suo quarto Lp, “Finnish Line, su uno standard indie-pop di più canoniche ascendenze beatlesiane. Che poi si fa presto a chiamare in causa i Fab Four tutti, quando in realtà è più che altro a McCartney che l’artista inglese intende rivolgere i suoi omaggi. Lo fa in “Piece Of Mind”, ad esempio, con il più classico dei suoi ritornelli trasparenti ma potenzialmente micidiali, per come sanno irrompere anche senza invito dall’anticamera del nostro cervello, in momenti di guardia oltremodo bassa (una doccia, una passeggiata nel parco). Se in “Strange Range” questo debito di riconoscenza si fa scoperto, specie in quanto a mimetismo vocale, il riff pare quasi rubato alle nuove leve del garage-pop a stelle e strisce, il jangle ribadisce un’essenzialità intrigante mentre il lo-fi della confezione contribuisce a rendere il tutto meno leccato. Poco oltre (“Make Me Do It Again”) si fa spazio un pianoforte ombroso à la Badly Drawn Boy, altro spirito con più di un’evidente affinità nei suoi confronti, ma ghirigori di chitarra e refrain sembrano mutuati piuttosto da uno dei pezzi minori del “White Album”: suggestione non casuale questa, visto che nel giochino delle plausibili parentele è a un certo John Lennon che viene da pensare sulle note di commiato di “Stone Cold Room”.
Dalle scarne informazioni sin qui offerte, dovrebbe essere chiaro che è nello stagno del derivativo che si sta sguazzando, con tutte le implicazioni avversative del caso, per quanto sia innegabile che di un citazionismo di tale fatta – così fresco e delizioso – forse non se ne incontra mai a sufficienza. Rispetto ai tempi della folgorante opera prima, lo one-man band di Manchester ha limitato all’osso il proprio istrionismo dada e gli inserti elettronici curiosi, per abbracciare in compenso una linearità espressiva sempre opportunamente a fuoco. Alla stessa maniera di un Brendan Benson, Roberts porta avanti con orgoglio la tradizione dei cultori delle meraviglie sixties, conosce bene l’abc, si applica con devozione e non eccede mai, anche solo nelle forzature formali. Con il suo carezzevole e malinconico easy-listening, palesa una sicurezza acquisita in una dozzina d’anni di esperienza ma è bravissimo a non inquinare la sua prodigiosa immediatezza con eccessive tortuosità di scrittura o simboliche, per non pregiudicarne la portata in termini di gratificazioni. Sonagli disarmonici tra le pieghe di “Newquay” spostano con decisione la barra dei riferimenti verso una psichedelia tenue e appassita, con un gradevole effetto detournement: un piccolo accorgimento che nella seconda facciata è offerto a più riprese, preziosa rimescolata alle carte in tavola.
Artista a tutto tondo come lo svizzero Balduin, solo con parecchi sconfinamenti nel barocco in meno, Jim Noir regala il meglio di sé quando si perde nelle atmosfere crepuscolari. La tavolozza cromatica non si discosta dalle tonalità bluastre di questi miracolosi incanti serotini (la potente infezione dolceamara di “The Boy”, il sunshine-pop autunnale dell’opener) e non può che far piacere ritrovare, anche solo per un attimo (nei cori di “Honour & Moogswings”), i padrini Beach Boys in un insperato cameo. “Finnish Line” pare auto-confinato in un 1967 mitologico ma le illusioni che regala, anziché indispettire, affascinano con gentilezza. Dentro si respirano pace, spensieratezza e garbo, talmente alieni alla frenesia e alle meschine provocazioni del presente che una moderata assunzione di queste pillole musicali potrebbe risultare tutt’altro che controindicata. Un piccolo album, quindi, incapace di spostare di un millimetro gli equilibri della musica leggera di oggi ma abbastanza salutare per l’ascoltatore in fuga dall’hype più sciatto. Le sue canzoni hanno l’aria di una giostra, nascosta in fondo ai nostri ricordi e invariabilmente un po’ triste, nella luce lontana di un delicato, ininterrotto soft focus.
Per Jim Noir l’ispirazione continua insomma a volare alta, a dispetto di una carriera che, in maniera direttamente proporzionale allo scemato intereresse dei pubblicitari nei suoi confronti, procede nel solco di una sordina sostanziale.
(19/02/2015)