Un altro disco di Brendan Benson, un nuovo probabile gioco al massacro.
Sempre così per il menestrello di stanza a Nashville: troppo scomodo l’abito cucitogli addosso dai tanti che ancora si illudono di poter sentire dentro ogni suo album un nuovo Raconteurs, e poi non tardano a rinfacciargli una non meglio precisata incoerenza di fondo. Non è raro che stampa e fan si trovino a competere per la palma del più miope, ma nel caso in questione l’implicita sinergia ha assunto i contorni di un disegno aberrante in maniera perversa, risvolto anche inevitabile quando ci si ostini a fondare ogni ipotesi di confronto sull’immancabile “Consolers Of The Lonely” piuttosto che sui ben più attendibili “Lapalco” o “The Alternative To Love”. Benson continua a essere vittima del macroscopico equivoco che lo vorrebbe controfigura di Jack White nella sua messianica celebrazione della cruda essenza del rock’n’roll, mentre ci si dimentica sempre di lui come artista squisitamente (power-)pop. Senza dover tornare ai promettenti esordi nei remoti anni novanta o all’onnipresenza radiotelevisiva di “Cold Hands (Warm Heart)”, si potrebbe cominciare asserendo che anche il penultimo “What Kind of World” era un buon lavoro, per quanto in pochi se ne siano accorti. Per l’apprezzabile disinvoltura nell’imbastire trame easy revivaliste di felice impatto, pur con la consueta dose di leziosismi (mai davvero fastidiosi), anche il nuovo “You Were Right” non si discosta dalla media più che dignitosa delle altre produzioni del Nostro.
Ancora una volta quella di Brendan è una proposta pop non particolarmente coraggiosa o originale, ma non le si renderebbe giustizia sostenendo che funzioni poco, o male. L’impressione, a volerne enfatizzare il difetto forse più evidente, è che l’autore pecchi per eccesso di generosità ed entusiasmo, finendo col voler mettere troppa carne al fuoco e non riuscendo a liberarsi di qualche evitabile faciloneria negli automatismi. In una raccolta di ben quindici brani, è ragionevole che possano non essere pochi quelli ascrivibili alla lista dei senza infamia e senza lode. Rigogliosi, citazionisti, anche innocui, ma piazzati strategicamente al momento opportuno, affogati nel ricco flusso sonoro e preziosi per come contribuiscono a pennellare l’umore generale o portano con onestà le loro brave borracce melodiche. Nessuna sorpresa in questo, e nessuno stupore quando si incontra il biondo di Royal Oak nelle vesti del tranquillo gentiluomo della canzone (“As Of Tonight”), all’inseguimento del McCartney di trenta anni fa. Magari risaputo nella sua posa garbata, privo di graffi e di lampi, forse persino buonista; le mirabili suggestioni, tuttavia, non gli fanno difetto, l’intrattenimento resta piacevole, elegante la confezione, e il disco ha il pregio di crescere con gli ascolti.
Di suo Benson è ancora, in prima battuta, un fervente lennoniano alla luce del sole. “Long Term Goal” lo ribadisce senza indugi ed è in frangenti come questo che i virtuosismi profusi a livello di songwriting riescono davvero ben calibrati, le intuizioni armoniche convincono e il tiro si rivela quello giusto. Mimetico ma con classe innata, il cantautore statunitense non fa mistero di essere un figlio inguaribile dei migliori sixties e nella sua più recente fatica indovina almeno un paio di altri mirabolanti omaggi alla band di Liverpool (“Swimming”, “Oh My Love”), centrando il bersaglio in virtù del suo prodigioso equilibrio e di un’interpretazione vocale da portare sugli scudi. In “I Don’t Wanna See You Anymore”, altro pezzo forte, sono invece l’Hammond e i fiati a regalare sostanza e profondità, con il cuore a contenere il sovrappiù di affettazione mentre i panni del crooner consumato vengono indossati con buona autorevolezza. Al di là del contributo di valide maestranze – su tutti i Poisies Ken Stringfellow e Jon Auer, il quinto Raconteur, Dean Fertita, e il batterista di Ryan Adams, Brad Pemberton – gli onori vanno tributati per intero a Brendan, talento poco appariscente e tra i più sottostimati della sua generazione: eccessivo, fumoso, discontinuo, sfarfallante ma anche limpidissimo, quando gli è riuscito di esserlo.
In un quadro multiprospettico e non di rado ridondante, dove risulta difficile schivare un senso di caotica sovraesposizione, non mancano i diversivi curiosi che ingentiliscano con grazia o amplino lo spettro cromatico senza inzavorrare la fruizione: dalle carezze del (non entusiasmante) vaudeville raydaviesiano di “Swallow You Whole” ai godibili aromi reggae del pastiche a doppia velocità “I’ll Never Tell”, passando per il levigato alt-country di “Diamond”, sconfessione dell’insistente orientamento decorativista e convalida delle credenziali dell’artista in seno a un’Americana attualizzata, alla maniera dei Sadies. In un finale che si ammanta di coloriture blues all’acqua di rose c’è infine spazio per echi byrdsiani (“The Fritz”) e per quella che, sin dal titolo, ha tutta l’aria di un’affettuosa strizzata d’occhio al più celebre e ingombrante dei suoi compari, “Red White and Blues”. Subodorarvi un messaggio subliminale è lecito. Jack White ha annunciato per il 2014 due nuove uscite, compreso il sophomore solista. Per la seconda, potrebbe trattarsi dell’atteso nuovo capitolo dell’avventura Raconteurs, chissà.
Nell’attesa di saperne di più, “You Were Right” è la cartolina tramite la quale Brendan Benson ci tiene a far sapere di essere ancora in discreta salute.
11/01/2014