Per la serie “il Canada che non vuol saperne di cambiare”, siamo lieti di annunciare il ritorno dei Sadies.
Il gruppo dei fratelli Dallas e Travis Good – fisionomia da faine e maschere truci da cattivi dei film western – è una piccola istituzione nel paese dei grandi laghi, dove resta forse il nome di punta in ambito alt-country. Attivi da quasi vent’anni, già nella shortlist del Polaris Music Prize (e vincitori di un Juno Awards) nonché membri onorari dei Mekons, sono amici di lungo corso di Howe Gelb, John Doe, Jon Langford e Neko Case, per i quali hanno fatto in più di un’occasione da backing-band in studio come dal vivo. Quest’anno si erano già fatti vivi con un disco realizzato assieme al padre Brian e agli zii Larry e Bruce, membri dei Good Brothers, sotto l’intestazione The Good Family, ma è “Internal Sounds” il loro vero nuovo album, realizzato (come il precedente) con l’aiuto in regia di Gary Louris dei Jayhawks.
Non occorrono che i cinque minuti evocati nell’episodio inaugurale per realizzare come ci si prospetti il solito bel compendio, il country in sinergia con un robusto rock delle radici, nella declinazione alternative che andava per la maggiore nei primi Novanta.
E’ invidiabile la disinvoltura dei Sadies alle prese con una materia che padroneggiano benissimo da anni. Sufficientemente smaliziati nella riproposizione di codici che hanno anche contribuito a riscrivere, ma assai bravi a non gingillarsi in pose accademiche o compiaciuti formalismi, oltreché a firmare canzoni che hanno la consistenza degli instant classic e la freschezza di vecchi standard adeguatamente vivificati. L’influenza del loro mentore e di certe fragranze tipiche della sua band appare talvolta evidente, come quando in “So Much Blood” scelgono di rifarsi alla riscoperta Americana di “Rainy Day Music” più che all’indimenticabile pastorale di “Tomorrow The Green Grass”. “Another Yesterday Again” riporta alla mente quella stessa sfera anche sul piano vocale. Il cantato ricorda infatti quello di Jeff Tweedy, periodo Uncle Tupelo, ma anche il Mark Olson solista o in compagnia dei Creekdippers, e ancor più Kraig Johnson dei Run Westy Run, che proprio a Louris era affiliato nell’estemporaneo ma memorabile side project Golden Smog (si ascolti la felice propensione melodica della schietta “Leave This World Behind”, degna del loro esordio “Down By The Old Mainstream”). Tutti i nomi poc’anzi citati valgono come riferimenti quantomeno potenziali per questo “Internal Sound”.
Le chitarre elettriche dei fratelli di Toronto lasciano nei solchi un’irrinunciabile impronta sudista (di quella scuola che ha diplomato orde di validi apostoli, dai Creedence Clearwater Revival ai North Mississippi Allstars) e i motori rombano a dovere, così il disco si snoda come una piacevolissima collezione di cavalcate , prive di sorprese (e non potrebbe essere altrimenti) ma anche suonate magnificamente e con il giusto piglio, senza sbavature. A lasciare il segno è la limpidezza delle trame, nette quasi si trattasse di traditional secolari, ma capaci di appagare anche grazie alla superba cura del dettaglio: un lavoro sui fondamentali della musica yankee che può ricordare quello recente di James Skelly con gli Intenders, ma ha dalla sua il vantaggio di essere stato scritto e registrato da chi in quel mondo è immerso tutt’intero da sempre. C’è grande vivacità in queste escursioni velocissime, con opportune orditure decorative che non elevano mai l’orpello a priorità, e l’album ha quindi modo di scorrere agile senza ingenerare noia, a meno che non si abbiano particolari preclusioni nei confronti di un genere per forza di cose non proprio esplosivo o contagioso. La formula dei Sadies ha il merito, se non altro, di renderlo accessibile e di potenziarne le attrattive grazie all’elevata qualità del tocco.
Talvolta i Dioscuri canadesi optano per un taglio acustico (con tanto di mandolino e banjo), così da allargare la proposta a un folk perfettamente calato nella tradizione nordamericana, ma con un respiro che vada ben al di là dello stanco revival. In altri casi gli spazi per la contemplazione si fanno più ampi, rievocando – tra gli altri – i migliori Richmond Fontaine. Non manca un numero più cantautoriale in senso moderno (“Story 19”), secco e toccante anche lasciando da parte i sensazionalismi e i cliché della disperazione, con l’intima concretezza di un Jay Farrar e l’umiltà di un Josh Haden. Dopo tutti i riferimenti alle delimitazioni temporali, al passato, il futuro, gli inizi e le conclusioni, è però il brano del congedo a fare davvero eccezione, sin dal titolo: una sorta di mantra che rilascia una sottile velatura oscura e sposa proprio in coda una straniante tonalità da New Weird America, curiosa perché inattesa, affidata agli incantesimi naturalisti della leggenda nativa Buffy Sainte-Marie. E’ la chiusura ideale di un lavoro che non aggiunge nulla di sostanziale a una carriera già considerevolmente lunga, le cui vette rimangono “Favourite Colors” e “New Seasons”. Questo non toglie che seguire i Sadies nelle loro dissertazioni sia ancora, oggi più che mai, un discreto trastullo.
12/12/2013