Proprio non vuole saperne di arrestare la sua corsa, quella canaglia volpina di Howe Gelb.
A patto che questa sua irrequietezza espressiva incontri opportuna gratificazione nel dispensare bellezza. Al comando della sua creatura più nota, l’artista di Tucson campa di questo da oltre trent’anni: ere di fedeltà e psichedelia parimenti basse, scurissimi boogie, divagazioni riarse, elettricità nervosa, blues sgretolato e caos da elargire a piacimento. Ma oltre i Giant Sand, ben prima che l’aggettivo andasse incontro a duplicazione enfatica con l’ingrossarsi della sua ghenga, il Nostro si è tenuto occupato con una moltitudine di progetti diversi e con i cosiddetti lavori solisti (se si possono definire tali album suonati assieme ai vari M. Ward, Steve Shelley e Thöger T. Lund, per tacere della pletora di ospiti, al solito molto speciali).
Dischi invariabilmente curiosi, nel cilindro il coro di una chiesa battista, una terna di chitarristi flamenco oppure i soliti noti, fa lo stesso. Dischi che il cantante non ha mai smesso di pubblicare, inflazionando di tanto in tanto le uscite, come nel corso di un 2013 che lo ha visto due volte – letteralmente – metterci la faccia. Ancora lei, quella di cui è facile invaghirsi. Bronzea. Seppiata, meglio, come le istantanee di un bandito ai tempi della frontiera. Con il copricapo d’ordinanza la prima, senza la seconda. Dove il buon Gelb si offre all’obiettivo come un maturo gentiluomo, trasandato ma romantico, incespicante e seducente, in quell’abito che ne ha viste tante e pure continua a far sensazione. Il tocco è leggerissimo. Frugale. Profuma di vecchio appartamento, un tantino dimesso, ma ancora confortevole. A restar impressa è la polvere, l’inchiostro con cui verga i suoi brani dalla notte dei tempi, oltre a una certa elegante approssimazione. Una pigrizia benevola, da cuori pacificati, che mette a proprio agio l’ascoltatore dopo avergli rivolto la più cordiale delle accoglienze nell’introduzione di “Vortexas”, crasi identitaria che è già tutto un programma.
Il casualista del titolo è anche un pauperista. Incidentalmente, come tiene a puntualizzare lui. Un disingannato, a caccia di oasi d’incanto dentro di sé. Per nulla incattivito da pose inesorabili, a differenza del fatalista Hugo Race. Addolcito semmai, dalla bellezza di pochi dettagli preziosi che ha il vizio di confondere con i ricordi: il violino di Andrew Bird o la compagnia del consumato Will Oldham, ad esempio, che possono passare tranquillamente per scherzi di un’immaginazione troppo generosa. Il suo è un deserto macchiettato di fiori inattesi e scorci che sorprendono, popolato da un’umanità marginale ma dignitosa pronta a trascolorare nell’epica letteraria. Il taglio si conferma quello bozzettistico delle recenti prove solitarie. In confezione povera ma non miserevole, così da dare respiro alle proprie esigenze di disimpegno. Schizzi disadorni con occasionali affrancature jazz, ipotesi di canzoni che conservano pur sempre una loro compiutezza non preventivata e poco convenzionale. Gemme lacunose a bella posta, fantasie sghembe e disarticolate come il pianoforte di “The 3 Deaths Of Lucky”, che par quasi risuonare dal passato e guarnisce il duetto con la scozzese K.T. Tunstall di scheletrica ironia. L’intimismo non si chiude nel confino di uno sterile quadretto. E’ una mattonella umorale in superba armonia con quelle più prossime e con l’ambiente tutt’attorno, spoglio ma mai arido.
Non manca il teatro di sabbia, scaglie e detriti: la trapunta ghiaiosa dove prendono corpo i miraggi riverberati degli ultimi Giant Sand. I cui contrasti, tuttavia, restano attenuati da una visuale inedita e finalmente tersa. “An Extended Plane of Existence” vale come nuova declinazione di un verbo antico, e la sua delicatezza sa di placida resa al sonno. E’ una tranquillità domestica a quietare, appagandoli, i fantasmi e le ombre dei giorni che furono. Tradotto in moneta sonante, le spirali rumorose non sono più sporcature ma semplici scie, lasciate in dissolvenza dalla ragione che si rilassa. Il folk dell’erosione vive di queste correnti calde e minimali. Scolpisce i paesaggi di un’anima inquieta per temperamento ma mai così padrona di sé, prima d’ora. Anche nel buio feroce di un monologo interiore (“Picacho Peak”), nuovi bagliori risplendono. Dolci i coretti infantili, un velluto la scorta del piano, affilato il picking. Qua e là Howe recita più che cantare, a mezzacosta tra candido gospel straccione e rimasugli rock, dall’inesausto giacimento di “Chore of Enchantment”. I non-finiti in creta che prendono forma tra le mani sono ibridi dei suoi. Pungenti, amabilmente squilibrati, senza mete prefissate e senza ansie da prestazione.
Fin troppo facile, allora, regalare loro un soffio di vita, o la profondità che rivelano a uno sguardo più attento: gli basta aggrapparsi alle meraviglie di quella sua voce inconfondibile, da spirito notturno che mitiga e irretisce. E apporre in calce la propria smorfia di bronzo, naturalmente.
28/11/2013