Gelb sa peraltro come risultare intrigante anche senza l’ausilio dell’elettricità o di forzature poco sincere e spazia, per quanto gli è possibile, tra soluzioni d’arrangiamento e generi differenti: dalla sottile malinconia del suo languido pianoforte a quel paio di divertissement appalachiani cuciti su misura per il banjo (come filastrocche dal chiaro sapore traditional), o dal quasi impercettibile pulviscolo di meraviglia che ammanta l’accorato voce e chitarra di “Plane of Existence” al country-folk essenziale, incline ad un sentimentalismo ispido quanto genuino, di “Lost Love”. Due episodi, questi ultimi, dei quattro non originali che Howe ha recuperato (e spogliato) dalla recente opera-western dedicata a Tucson, pubblicata lo scorso anno sotto l’inedito moniker Giant Giant Sand. Fanno appena eccezione le due frammentarie dissertazioni blues (“Man on a String” e “Redelivery Blues”) registrate da Howard Bilerman a Montreal, ospite la sezione ritmica dei Thee Silver Mt. Zion (Thierry Amar e Dave Payant), in cui la vecchia volpe concede un po’ più respiro a fantasia e virtuosismo. Anche dietro lo swing ubriaco di “Mystery Spot”, anche nelle piacevoli imperfezioni o nel tono da ricreazione, il genio irregolare ma cristallino di Gelb non è comunque mai in discussione.
Il rifacimento di “Windblown Waltz” vale come biglietto da visita per l’intero album: un episodio vividamente cantautoriale, di sostanza, con le sue belle suggestioni. E a così alto coefficiente di tipicità da suonare esattamente per quel che è: la versione unplugged di un pur giovane classico del repertorio dei Giant Sand. Nella voce ben riverberata di questa piccola grande icona statunitense risplende in fondo la stessa fiamma sacra della sua più nota creatura. Oltre ad essa non serve altro che una traccia, per quanto modesta e traballante, che offra al folksinger una direzione verso cui muoversi. In secondo piano cinguetta magari un canarino, il legno rilascia lievi crepitii sotto lo sgabello ed è questa autenticità, unita al tono confidenziale, a risultare più che sufficiente. Del tutto inatteso, il disco non aggiunge nulla a una carriera di suo già ricchissima. Si limita a documentare una parentesi di serenità nel quotidiano dell’artista. Certo, limitato da una produzione volutamente dimessa e dall’indubbia autoreferenzialità del progetto, resta poco più che un esercizio di stile senza troppi fronzoli, un quaderno di brutta interessante ma tutt’altro che indimenticabile.
Il taglio pauperista certifica tutte le credenziali di un autore capace di accendere vere scintille anche in una luminosa condizione di economia espressiva. Detto questo non vi è dubbio che persino i suoi più accaniti estimatori non possano che preferirlo in una veste meno spartana e più partecipata. Ora che il suo collettivo principe si è allargato a dismisura, pare allora sensato valutare “Dust Bowl” alla stregua di un diversivo evidentemente necessario. E nemmeno disprezzabile, almeno in questa prospettiva.
(09/05/2013)