Cartografando la produzione discografica dei Coral, si può osservare come dall’arrischiata schizofrenia psichedelica del primo indimenticabile album (un ardito bazar infarcito di eccentriche chincaglierie freakbeat a profusione) la band di Liverpool abbia poi progressivamente imboccato la china discendente di un ritorno sempre più marcato all’ortodossia di un revivalismo nostalgico senza troppi sussulti. Uniche parziali eccezioni, a pensarci, il coltivato stranismo patafisico da retrobottega dei sogni del tascabile “Nightfreak And The Sons Of Becker” e i lampi di fantasia (ok, non sempre propriamente indimenticabili) di “The Invisible Invasion”.
Come i concittadini Gomez (altri sublimi collezionisti di assortite dagherrotipie sixties, nonchè falsificatori calligrafici di primissimo pelo), o anche i Bees, domiciliati non per niente nell’isola di Wight (li ricordate?), i Coral hanno più o meno consapevolmente deciso di seppellirsi vivi in una cripta sottratta al fluire impietoso del tempo, per continuare a coltivare e perfezionare ad libitum la sontuosa arte di un filatelia musicale dai tratti quasi maniacali nel suo onnivoro collezionismo.
Intento senz’altro ammirevole, non fosse altro che per la cura e la passione davvero infinite con cui questo quintetto allinea, anche nel nuovo “Butterfly Houses”, tante multicolori figurinepsych-pop e microscopici francobolli imperlati di bizantinismi compositivi da godere a fil di lente di ingrandimento anche nel più piccolo dei loro dettagli grafici, cogliendo rimandi (mai dissimulati) a Love, Zombies, Donovan, Big Star, Monkees, Incredible String Band o Kinks (provate ad assaggiare pasticcini come “Sandhills”, “Grenn Is The Colour”, “1000 Years” o “Two Faces” e poi fateci sapere). Ghirlande di cori floreali e un certo tono messianico di rinascita fisica e spirituale (vien da pensare in ragione delle difficoltà patite dal gruppo in seguito all’addio sofferto del sesto membro Bill Ryder-Jones), fanno la piccola (ma credibile) fortuna di questo quinto album impacchettato dai liverpooliani assieme al celebrato capocuoco John Leckie, che rischia davvero di diventare il lavoro stilisticamente più equilibrato e compiuto della band da un quinquennio abbondante a questa parte.
I Coral saranno forse un improbabile ufficio stampa per le delizie turistiche di un decade musicale (i magnifici Sessanta) solo immaginata dai nostri e probabilmente mai davvero esistita (almeno per come ci è stata diligentemente raccontata da mitografi troppo solerti), eppure il caleidoscopio smerigliato di canzoni offerto dalla band vale comunque la monetina richiesta, per chi saprà meritarselo.
09/08/2010