Carriera travagliata, quella dei Gomez. Undici anni fa l'esordio fulminante di "Bring It On", subito bissato un anno dopo da "Liquid Skin", due album tra i migliori usciti dalla Gran Bretagna in quegli anni, miscele di pop, psichedelia, elettronica, blues e black, che lasciavano prospettare un futuro da band di grande caratura.
Poi, una lunga pausa di quattro anni precede la pubblicazione di "In Our Gun", e già s'intravedono cali d'ispirazione che si faranno man mano più evidenti negli album successivi, fino ad arrivare a questo "A New Tide".
Ed è proprio questa nuova marea che ha riportato a galla il gruppo inglese, facendogli recuperare verve ed estro creativo; in questo album i Gomez ritrovano una gamma di colori briosamente varia, quella eterogeneità e quel saper miscelare generi che aveva caratterizzato i loro primi lavori.
Dall'allegria un po' allucinata alla Mr. E ("If I Ask You Nicely") alla malinconia un po' "Americana" di "Lost Track", oltre a folk electro-psych tra Beck e Radiohead ("Mix"), leggerezze tra Belle & Sebastian e Simon & Garfunkel ("Other Plans") e folktronica ("Win Park Slope", "Bone Tired").
A parte un cedimento alla tentazione melodica di facile presa ("Airstream Driver"), l'esagerazione di un pastiche con inserti synth e jazz ("Sunset Gates") o la (invero trascurabile) sensazione di star ascoltando i Pearl Jam, che si ha nel cantato di Ottewell in "Little Pieces" e "Very Strange", "A New Tide" è compatto e frizzante, quasi senza reimpitivi, e ci restituisce la band in forma sopratutto dal punto di vista compositivo.
Non avrà singoli come "78 Stone Wobble" e "Get Myself Arrested", sicuramente non possiede la freschezza stilistica dei primi due album, ma "A New Tide" è lo specchio di un gruppo ritrovato, che con questa nuova marea è riuscito a disincagliarsi dalla secca di una crisi creativa durata troppo a lungo.
09/07/2009