La potenza visionaria del capolavoro di George Orwell, “1984”, continua a produrre suoni e visioni che si ispirano agli incubi distopici dello scrittore britannico. Il 2018 è la volta del percussionista e musicista elettronico Marco Malasomma, autore di un concept-album in cui si immagina il luogo in cui Orwell scrisse e ideò gli incubi totalitari di “1984”: l’isola scozzese semideserta di Jura dell’arcipelago delle Ebridi interne con una popolazione di circa 170 abitanti. L’isolamento voluto da Orwell diventa lo spunto di riflessione per un album elettroacustico claustrofobico, colonna sonora sia delle visioni di Orwell, sia di una riflessione sulla società moderna e su quanto degli scenari orwelliani si sia realizzato.
Sembra che Orwell per comprendere meglio l’evoluzione della società avesse bisogno di allontanarsi da essa per poterla mettere a fuoco da lontano, senza restare influenzato dalla forza pervasiva di uno Stato comunque opprimente, sia esso democratico o totalitario. L’isolamento in un luogo che gli occhi della propaganda ignorano diventa quindi il posto ideale per ritrovare la propria vera identità e mettere in chiaro i propri pensieri.
Gli otto brani elettroacustici - ricchi di percussioni e elettronica - sono tutti intitolati in neolingua (la lingua ipersemplificata di “1984” che aveva il compito di rendere sempre più difficile lo psicoreato). Lunghe sequenze di droni e stratificazioni, spesso ossessivi e claustrofobici, ripercorrono i pensieri febbrili di Orwell, quasi come se Malasomma lo immaginasse in preda a incubi terrificanti durante la scrittura del romanzo.
L’iniziale “Equal” è dominata da ritmi marziali, quasi a presentare l’aspetto militaresco e totalitario dell’ambiente in cui Winston Smith - il protagonista di “1984” - è costretto a vivere. “Oldspeak” (traducibile in archeolingua, il vecchio idioma parlato dai prolet) è ancora più ricco di percussioni, a metà tra il tribale e il ripetitivo minimalista (pur con crescendo finale) che ricorda Steve Reich, ma meno freddo e meccanico di quest’ultimo.
I battiti elettronici di “Plusgood” (violenta semplificazione delle parole con l’obiettivo di ridurre al minimo la possibilità di pensiero umano complesso) con dialoghi incomprensibili lasciano spazio alle manipolazioni sonore estreme e sature di tensione di “Rectify” (dalle operazioni di rettifica, metodo con cui il Ministero della verità cancellava il passato modificandolo a proprio piacimento).
“Doublethink” si basa su un breve pattern ripetuto con voci manipolate e sembra riferirsi all’impossibilità di comunicazione sincera nel mondo del Bi-pensiero, in cui ogni cosa può essere l’opposto e viceversa (le tre frasi del partito “la libertà è schiavitù, la guerra è pace, l’ignoranza è forza”). “Ownlife” è la traccia più lunga, riferita ai pochi momenti di vita dell’appartenente al partito in cui non è impegnato nelle attività lavorative; un senso di quiete pervade il brano, sono i momenti in cui si può cercare di essere se stessi ma allo stesso tempo i più pericolosi, perché ogni forma di diversità dalla massa è sospetta e potrebbe implicare lo psicoreato.
Chiudono “Joycamp” (i campi di lavoro forzati) con percussioni ancora simil-Reich e “Unperson”, lo stadio finale del processato e condannato che viene successivamente cancellato, vaporizzato, eliminando ogni traccia della sua esistenza. Tre minuti rarefatti tra brevi percussioni, elettronica e voci di fantasmi che tentano di riemergere per testimoniare la propria passata esistenza contro la violenza totalitaria del partito. Un finale poetico per un album che è un viaggio in uno degli incubi più spaventosi del ventesimo secolo e del nostro presente.
05/06/2018