Le sensazioni alla vigilia delle uscite di “How The West Was Won” del 2017 e di questo “Humanworld” sono diametralmente opposte.
Il primo dei due proprio non ce lo si aspettava, con Peter che tornava a pubblicare qualcosa reduce da anni di oblio cui si era costretto a causa di una vita spericolata, zeppa com’è stata di droghe pesanti e altri abusi. Ci trovammo dunque tra le mani, quasi storditi, sicuramente stupiti, un disco ottimo. Un album equamente diviso tra caustiche rock song su politica e società e melodiche ballate d’amore di una purezza insospettabile per la penna di un (all’epoca) sessantacinquenne.
Due anni dopo, lo scenario si presenta dunque capovolto. Volevamo altre di quelle canzoni, le abbiamo aspettate, bramate. Covando la speranza che non ci deludessero, che il primo disco pubblicato a nome Peter Perrett non fosse un estemporaneo guizzo di ispirazione, l’ultimo sussulto prima di una sparizione in tutta probabilità definitiva. Nel frattempo Perrett si è però imbarcato in un lungo tour mondiale, si è scrollato quindi di dosso la ruggine, rumor di nuovi brani si sono fatti via via più insistenti e la possibilità di un sequel di “How The West Was Won” è parsa ogni giorno più concreta.
Anche questa volta i figli Peter Jr (basso) e Jamie (chitarra solista) sono stati della partita, con il secondo che ha firmato e cantato una delle dodici canzoni in scaletta, la grintosa “Master Of Destruction” – doveroso omaggio a un ragazzo senza la cui presenza questo ritorno sarebbe stato probabilmente impossibile. Numerosi sono questa volta anche gli spazi lasciati, di norma nelle canzoni più meditative, a tastiere e archi.
A parte un insolito Korg danzereccio piazzato in apertura di “War Plan Red”, in “Humanworld” Perrett e i suoi non si sono presi troppi rischi e hanno addobbato i salaci testi del vegliardo londinese con quello che gli riesce meglio: semplice, sporco rock’n'roll. Sia esso cazzuto come nella granitica “Once Is Enough”, psichedelico e infettato di soul come “I Want Your Dreams” o arrembante e scanzonato (il power pop di “Love Comes On Silent Feet”).
La potenza di fuoco delle chitarre appare implementata rispetto a “How The West Was Won”. “Believe In Nothing” apre un terzetto di canzoni roventi, dove le feroci invettive politiche di Perrett, le scene di guerra narrate (“War Plan Red”, “48 Crash”), e più in generale il pazzo mondo degli umani del titolo bruciano tra le fiamme fatte divampare da chitarre fuzzate e blueseggianti. Butta acqua sul fuoco e prepara il disco a un finale meno incandescente “Walking In Berlin”, marcetta per Fender tintinnanti che sembra in tutto e per tutto un omaggio ai Velvet Underground.
Meno numerose, ma sorprendenti come due anni fa sono le ballate d’amore. Scritte da Perrett con un candore quasi adolescenziale, nonché capaci di fare immaginare le strofe cantate come fossero scene di un film. Quando in “Heavenly Day” il Nostro intona “It was so romantic as we waltzed through the park/ I wanted to hold your hand but I was too scared to ask/ We were the only people alive in the world as we sat on the grass” in un tripudio paradisiaco di chitarre appena sfiorate, sembra di essere lì. Quarant’annni fa, innamorati in un parco di South London.
È merito delle grandi doti di Perrett non soltanto in sede di scrittura, ma anche di interpretazione, ove viene aiutato da una voce profonda e iconica adatta a milleuno registri.
Rispetto a “How The West Was Won”, forse “Humanworld” ha qualche gran canzone in meno, o forse è semplicemente venuto a mancare l’effetto sorpresa. Fatto sta che si tratta di un disco di gran valore, che chiarifica come il ritorno di Peter Perrett non sia un fuoco di paglia, l’ultima fiammata del fu leader degli Only Ones, bensì una certa e valida seconda fase di carriera.
11/06/2019