Sault

Untitled (Rise)

2020 (Forever Living Originals)
funk, disco, r&b

Dalla scrittura dei brani alla loro esecuzione, dalle scelte produttive alle modalità di pubblicazione e distribuzione, ogni singolo elemento della musica dei Sault sembra concepito come puro atto di rivolta. A una manciata di mesi dal glorioso “Untitled (Black Is)”, il collettivo londinese ritorna ora con un altro senza titolo (“Rise”, stavolta) e quindici tracce che mantengono alto il livello della protesta e confermano un’ispirazione eclettica e apparentemente inesauribile: siamo al quarto album in meno di un anno e mezzo, e ancora non si avvertono da queste parti le pur minime tracce di stanchezza, staticità o abitudine.
Chi sia a comporre, suonare e cantare questi pezzi ancora non si sa, tanto che definire il progetto “misterioso” sta ormai venendo a noia; ma il buio fitto intorno ai Sault ha il pregio di costringere l’ascoltatore a concentrarsi sul contenuto, sovvertendo la tendenza di un’epoca in cui qualunque prodotto artistico - anche il meglio intenzionato - sembra nascere automaticamente come idea di marketing e self-branding. Qui, invece, nient’altro che note e parole, ogni orpello eliminato a monte per far arrivare a valle solo il necessario, in una filiera che sfrutta la tecnologia per raggiungere il pubblico nel modo meno mediato possibile.

Sebbene però il sound dei Sault sia già più che riconoscibile - una pasta sonora ruvida e minimale che attinge a ogni angolo della storia della black music - lo spettro dei riferimenti è talmente ampio da garantire a ogni nuova uscita una specificità ben definita.
Prendete gli attacchi, ad esempio. “Black Is” si apriva con una dichiarazione di guerra hard funk come “Stop Dem”, anthem di spaventosa forza emotiva in cui le urla belluine delle voci femminili echeggiavano in un vuoto disperante. “Rise”, invece, va subito a parare altrove: “Strong” è una gemma dancefloor-oriented e mutaforma lunga sei minuti, che volteggia leggera fra archi, tastiere e chitarre disco ed evolve senza mostrare cuciture in “Fearless”, r&b intriso di una specie di euforia malinconica - il riff d’archi che funge da chorus suona come qualcuno che stia ballando, sì, ma con le lacrime agli occhi.
Quel che rimane invariato è il tema portante di tutta la discografia dei Sault: anche su una base che è sostanzialmente una versione secca e stilosa del Quincy Jones di “Off The Wall”, il focus delle liriche resta ancorato a una sloganistica tra l’analitico-emotivo (“all our lives simply feels like we've been trying to go back to Africa”) e il motivazionale-resistenziale (“worship the skin I’m in cos’ I love my colour/ gotta fight, gotta fight”). Niente esemplifica meglio la lacerazione di un popolo di “I Just Want To Dance”, orgia percussiva - con l’easter egg di un mezzo collasso, proprio al centro - in cui nemmeno la danza più sfrenata permette di dimenticare il mondo intorno (“got to find a way out/ why my people always die”).

In copertina non più un pugno chiuso, ma due mani giunte che emergono da uno sfondo di nuovo total black: sarebbe dunque lecito aspettarsi anche da questo dettaglio un ammorbidimento generale dei toni, ma chi si era innamorato dei groove essenziali dei Sault troverà pane per i propri denti in una seconda metà decisamente più ruvida, a tratti perfino aggressiva. La circolarità bassosa di “The Beginning & The End” somiglia in effetti a una vera e propria chiamata alle armi, declamazioni imperiose pronte allo scontro (“we will not let our minds be used in this wicked world/ we will band together/ we will make the human family one once more”); il contrasto tra foga ritmica e morbidezze vocali che si ascolta in “Free”, poi, è ormai uno standard in questo personalissimo canone. Il timore del more of the same, però, viene scongiurato dalle gustosissime divagazioni che attendono l’ascoltatore proprio nelle ultime tracce.
Ed ecco allora lo stridere dissonante dei violini nel breve recitato “No Black Violins In London”; il lamento per pianoforte e spazzole “The Black & Gold”, jazz nato a tarda notte dalla foschia dei posacenere di un locale semideserto; le vibrazioni da soundtrack anni Settanta delle strofe di “Scary Times”, quasi solo corde di un basso percosse, per liriche che una volta di più descrivono il terrore per ogni nuovo fermo di polizia che finisce con un morto sull’asfalto - “e non sei tu la persona e tuttavia corrispondi alla descrizione perché c’è un’unica persona che è sempre la persona che corrisponde alla descrizione”, scrive Claudia Rankine in “Citizen”. Sono minuti realmente drammatici, che trovano sfogo solo nel sole pallido di “Little Boy”, delicatezza pop troppo amara per splendere della luce di una vera serenità.

Dall'ascolto di questo nuovo Sault si esce ancora una volta straniti. Come tutti i capitoli precedenti di una saga già tra le più elettriche del nostro tempo, risulta difficile da valutare come semplice album: il valore artistico dei cinquanta minuti di "Untitled (Rise)" è innegabile, la sua carica antagonista contagiosa, ma si fatica a non rimanere ancora più abbagliati inserendolo nel contesto di una discografia che sembra nascere dalla necessità di commentare gli eventi proprio mentre succedono.
Con i Sault, il pop - musica nata per stare nel momento e non nelle enciclopedie - sembra riscoprire un vero interesse per il polso del presente, tanto che alla fine ci si ritrova appiccicata addosso la domanda più eccitante di tutte: “E adesso?”.

19/10/2020

Tracklist

  1. Strong
  2. Fearless
  3. Rise
  4. I Just Want To Dance
  5. Street Fighter
  6. Son Shine
  7. Rise Intently
  8. The Beginning & The End
  9. Free
  10. You Know It Ain't
  11. Uncomfortable
  12. No Black Violins In London
  13. Scary Times
  14. The Black & Gold
  15. Little Boy

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