Un’esortazione all’autenticità e a un’energica espressività, quella che il produttore Matt Sweeney ha rivolto ai Songhoy Blues, formazione in esilio dalla propria terra, il Mali, dopo che i ribelli jihadisti ne hanno preso il controllo, bandendo qualsiasi forma di espressione musicale. Ed è forse questa la ragione per la quale il terzo album “Optimisme” agguanta tutta quella grinta e quella trasgressività che la band traduce normalmente in performance live infuocate.
Un’esuberanza che sconvolge le attese, già dalle prime note di “Badala”: un incendiario hard-rock alla Thin Lizzy dove autentico protagonista è il chitarrista Garba Touré, pronto a primeggiare per gran parte dell’album. Ma non è l’unica digressione: i Songhoy Blues si concedono anche alla lussuria flebile della disco-music in “Pour Toi”, e per la prima volta si cimentano con la lingua inglese nel muscoloso rock-blues di “Worry”.
Resta sempre corale e granitico il tipico groove desert-blues psichedelico della band (“Assadja”), mai così incline a sollevare la voce per i diritti negati delle donne africane (“Gabi”), coinvolgente e vibrante al punto da farsi perdonare anche qualche prevedibile ripetitività delle composizioni grazie alla contagiosa sfacciataggine ritmica di “Barre”, al graffiante e tonificante assolo che smuove le linee funky-rock di “Dournia” e a quell’insolito brio swing che agita “Fey Fey”.
Come ogni buon album di protesta, anche “Optimisme” non rinuncia a una poetica fase di riflessione, un intenso soul-afro-blues, “Kouma”, che sigilla con classe un disco che profuma di tradizione e contemporaneità, grazie a un linguaggio musicale universale e anti-individualista del quale abbiamo tutti bisogno.
08/01/2021