La musica di Avishai Cohen elegante lo è sempre stata. Il contrabbassista israeliano, tra i principali protagonisti del jazz mediterraneo degli ultimi decenni, ha saputo combinare nel suo stile una pacata “classicità” all’adozione di schemi ritmici e melodici dell’area levantina, coniando una formula al tempo stesso familiare e decisamente personale.
È chiaro però che un album inciso in compagnia di un’orchestra sinfonica si presta alquanto ad alzare il livello di ricercatezza del sound. Cohen non è nuovo alle contaminazioni tra jazz, world music e musica da camera, ma a un connubio così ambizioso non era ancora giunto. E invece eccolo qua.
Qualche timore nell’approcciarsi al disco è più che lecito. Il rischio di un esito spento e kitsch, si riterrà, è dietro l’angolo. Bastano però le prime note per ricredersi: l’introduttiva “Almah Sleeping” è sì carezzevole e ricolma d’archi, ma ha anche quella pienezza avvolgente che solo le migliori partiture orchestrali riescono a distillare. Con la successiva “When I’m Falling”, gradita incursione nella forma-canzone, entrano in gioco gli elementi stilistici più caratterizzanti del jazz di Cohen: linee chiare e di grande efficacia melodica, riferimenti mediorientali evidenti ma mai pedissequi, inventiva e grazia nell’adozione di soluzioni ritmiche esterne al canone occidentale (in questo caso un 9/8).
Il garbo con cui gli ingredienti si combinano è frutto anche della presenza accanto al bandleader di un cast eccellente e collaudato: il pianista azero Elchin Shirinov (con Cohen già nello splendido “Arvoles”, del 2019), il produttore svedese Lars Nilsson, che affianca il musicista dal 2010 di “Seven Seas”, e il mostro sacro della batteria jazz degli ultimi dieci-vent’anni, Mark Guiliana - sodale del contrabbassista in tutti i suoi album più celebrati, ma noto anche agli ascoltatori rock e pop grazie al suo ruolo di primo piano nell’ultimo lavoro di David Bowie, “Blackstar”.
Chissà se, nello scegliere “Nature Boy” come standard da reinterpretare, la formazione avesse in mente proprio la (doppia) interpretazione data da Bowie nella colonna sonora di “Moulin Rouge”. Certamente il brano incluso in “Two Roses” ricorda più da vicino i toni ombrosi di quegli esperimenti elettro/orchestrali rispetto alla storica versione di Nat King Cole del 1948. Quella che invece è nuova è l’enfasi data nell’esecuzione alle inflessioni orientali, figlie anche delle somiglianze (che sconfinano nel plagio) tra la melodia della strofa e “Shvayg Mayn Harts”, brano di teatro musicale yddish composto da Hermann Yablokoff nel 1935. Sia come sia, nell’incisione presente su “Two Roses” archi fluttuanti e fiati più notturni che mai rafforzano efficacemente la suspense insita nell’ambiguità armonica del pezzo, ben sfruttata per sfociare in un misuratissimo solo di piano e - soprattutto - per preludere all’assai più tumultuosa “Emotional Storm”, già pezzo forte del capolavoro “Continuo” (2006).
“Tempesta emotiva” è un’epressione molto a fuoco per descrivere diversi altri episodi del disco, quelli più camaleontici e trascinanti. Pezzi come “Two Roses (Shnei Shoshanim)”, “Arab Medley” e “Alon Basela” sono perfette espressioni dell’intricatezza metrica che da tempo si associa alla sintesi world jazz del Cohen compositore. Alle loro entusiasmanti giravolte ritmiche fanno da contraltare “Puncha Puncha” e “Morenika”: brani incentrati sul repertorio tradizionale, ma giocati su un tono più confortevolmente sontuoso, facilmente impreziosito dai timbri lussureggianti dell’orchestra.
Questa alternanza di stili e geografie (con testi in inglese, ebraico, spagnolo) consente una piena esplorazione del potenziale offerto dall’orchestra, a pieno agio sia nel suo abituale ruolo di “vestito da sera” per le composizioni, che quando è coprotagonista di un dialogo serrato con l’interplay jazzistico di Cohen e soci.
Un disco variegato, dunque, ma anche eccezionalmente equilibrato nel suo dar spazio a tutte le anime del musicista e della sua formazione. Impeccabilmente compunto, ma mai eccessivamente formale, “Two Roses” accosta nuovi inserimenti e pezzi storici del repertorio del contrabbassista, e combina dinamismo panmediterraneo e sfarzo classicheggiante in un’antologia variopinta e sostanzialmente priva di cedimenti.
Per chi segue Avishai Cohen da tempo, l’album è l’ennesima conferma della caratura del personaggio. Per chi è nuovo al suo universo musicale, è invece la migliore introduzione possibile.
05/05/2021