Nel jazz, la musica è la lingua, poi ci sono i vari dialetti; qualcuno può pensare a questi dialetti come generi, tipo latino, moderno, swing, bebop [...] mi piace praticarli tutti, così ho l’opportunità di districarmi e comunicare in situazioni sempre diverse
Parole dello stesso Joel Ross, giovane jazzista di Chicago oggi di stanza a Brooklyn. Un approccio semplice da buon studente del mestiere, ma che sta dando i propri frutti; firmatario sotto Blue Note sin dal 2019, Joel è uno di quei musicisti sempre pronti a mettersi in gioco senza alcun divismo, sia in solitaria che a fianco di vari colleghi – si nota in particolare la collaboarazione con l’acclamato batterista Makaya McCraven.
Ma da virtuoso del vibrafono, Joel sembra intrinsecamente portato all’arte dell’ascolto; il suo strumento d’adozione è di raro impiego, per via di una timbrica certo particolare ma sottile ed evanescente, spesso impiegata più come coloratura che non piatto principale – un po’ come suonare l’arpa o il fagotto in un’orchestra classica. Pertanto, anche un approccio stilistico intenzionalmente “post-bop” in mano a Joel risulta comunque comunitario, l’assolo – suo o di altri – non svetta mai sopra l’organico della strumentazione. “The Parable Of The Poet” nasce proprio da tali presupposti: jazz onirico e spirituale dalle trame calde e avvolgenti per non dire ovattate, un elogio alla lentezza, dove un ottetto di musicisti si dilata in orizzontale con fare quasi sinfonico.
L’iniziale “PRAYER” si presenta esattamente per quel che suggerisce il titolo: un semplice motivo melodico che si ripete lungo la durata del brano, pianoforte (Sean Mason) e ottoni (Immanuel Wilkins e Maria Grand ad alto e tenore rispettivamente, Maquis Hill alla tromba e Kalia Vandever al trombone) portano avanti un discorso pacato e circolare che dà il tono al resto del lavoro.
A chiudere l'ascolto troviamo “BENEDICTION”, che richiama atmosfere simili e in un certo senso impacchetta questi cinquanta minuti di musica dentro un involucro che ha del sacro.
Tra le pieghe del lavoro le cose possono anche cangiare, pur senza mai stravolgere; vedasi “CHOICES”, una lugubre introduzione quasi ambient che lascia emergere gli ottoni poco a poco, o “DOXOLOGY (Hope)”, che vira verso colorati festoni afro-cubani. A nove minuti di durata, “GUILT” è una marcia che ha modo di espandersi a piacimento: sul finale, piano e batteria (quest’ultima a cura di Craig Weinrib) partono su una breve ma concitata fuga d’energia. Il trombone di Kalia guida invece il muto andamento di “THE IMPETUS (To Be And Do Better)”.
Il brano più drammatico del lotto è “WAIL”, animato come da titolo da un sassofono che non sa darsi pace; a oltre dieci minuti di durata, il pezzo si muove dal pungente dolore di Charles Mingus alle inquisitive partiture mediorientali di Yusef Lateef, come fosse una suite a parte all’intero dello stesso album. Ed è questa la cifra stilistica di “The Parable Of The Poet”; coltri di ottoni e pianoforte che prendono il sopravvento sia sulla sezione ritmica che sul vibrafono dello stesso autore, risultando in un ascolto caldo e confortante come una tazza di tè nel cuore dell’inverno, ma a tratti anche impalpabile, quieto e sfuggente, come se mancasse proprio una decisiva mano autoriale in grado di riportare tutto a casa.
Non si negano comunque a Joel una visione moderna e un tocco elegante ma partinente e sempre emotivo; un uomo che pare letteralmente respirare jazz dalle narici, e dal quale si presume arriveranno molte altre cose in futuro.
25/10/2022