Dicono che la magia del jazz sia inafferrabile, una materia particolarmente soggetta al sentimento comune che si respira nella stanza una volta imbracciato il proprio strumento. Ripetere un brano anche solo due volte non porta mai agli stessi risultati. Come approcciarsi quindi a quella fluida terra di confine tra composizione e improvvisazione? Kalia Vandever, giovane autrice e trombonista di stanza a New York, dirige gli strumenti attraverso le proprie composizioni come fosse un viaggio guidato dentro a un elastico in tensione di ritmi e spunti melodici. La sua mano è spesso intima e graziosa, eppure le tracce che compone si aprono a maglia, spinte da uno spiccato lirismo corale e da una serie di idee prese in prestito all’arte della libera interpretazione.
“Regrowth” è un disco dalla personalità definita ma che suona anche come il prodotto di un affiatato sestetto; Immanuel Wilkins (sassofono), Lee Meadvin (chitarra), Paul Cornish (pianoforte), Nick Dunston (contrabbasso) e Connor Parks (batteria) non sono solo turnisti, bensì parti integranti di un dialogo dove le timbriche di fiati, corde e percussioni si amalmagano all’austero suono del trombone dell’autrice col fare di una mini-orchestra. Il tema della ricrescita suggerito dal titolo si fa percettibile proprio quando gli strumenti si rincorrono tra di loro, rendendo l’ascolto avvincente su più piani di percezione.
“Soft” apre la collezione come un quieto gospel da domenica mattina, lasciando quasi presagire l’entrata in scena della voce di Tom Waits, invece Kalia cede il posto agli strumentisti: trombone e sassofono s’intrecciano con affetto sopra una parsimoniosa sezione ritmica, ora dilatandosi, poi rientrando dentro l’iniziale ostinato melodico, creando una progressione che non perde mai di vista il sobrio tocco elegiaco del tema originale. “False Memories” parte dagli stessi presupposti ma presto si fa più estroversa, incluso un severo intermezzo di pianoforte e l’assolo finale di batteria che si strascica come un animale ferito.
Dominata nuovamente dal pianoforte in un contiuo saliscendi di note scattanti e arpeggi addolciti, “Passing Thoughts” offre la costola nervosa del lavoro, un sentimento che prosegue lungo la stridente cacofonia vagamente free di “An Unwelcome Visit”, dove l’ospite non gradito viene letteralmente messo alla porta.
Notevole anche l’uso della chitarra, forse perché meno impiegata nel tradizionale impianto jazz; qui lo strumento adorna le trame di “Lift”, ma trova curiosamente posto anche nell’atmosferica lentezza ambient di “More Of The Good Stuff Later”, arpeggiando lungo tutto il brano come un orologio a pendolo, mentre il resto degli strumenti tenta di scuotere la quiete creando una mini-rapsodia in meno di sette minuti.
Una registrazione tutto sommato semplice ma che mette in evidenza le doti di una musicista già ampiamente avviata verso lo sviluppo del proprio linguaggio. Da notare, infatti, il suo lavoro accanto a Joel Ross, Moses Sumney e al collettivo sperimentale tilt, tra gli altri, oltre a una serie di comparsate come turnista nel chiassoso mondo del pop, con gente del calibro di Harry Styles e Lizzo.
Insomma, la giovane Kalia è quietamente presente un po’ ovunque, ma nel momento in cui concentra le idee, la sua mano tira fuori filigrane sonore avvincenti, curate da una limpida ricchezza timbrica mai fuori posto. “Regrowth” per il momento non sarà che una piccola goccia nell’oceano del jazz contemporaneo, ma se siete arrivati a leggere sin qui tanto vale concederle un ascolto.
10/11/2022