Il secondo album di lunga durata degli I Hate My Village si è in questi mesi gradualmente fatto strada nelle preferenze di fan e appassionati, guadagnandosi un suo status peculiare rispetto all'esordio del progetto. Soprattutto si è chiarita sempre di più la natura di una formazione che è nata unicamente sulla base di una sinergia fra differenti curiosità: intellettuali, artistiche, emotive. Il pubblico è chiamato a interagire alla pari con la complessità, comunque avvincente, della musica, ma non a condizionarla. Le aspettative dei fan rimangono fuori dalla porta dell'enoteca/magazzino dove i nostri si sono ritrovati per lunghi mesi alle prese con jam appassionanti. E così, come ribadiscono nella lunga intervista che ci hanno recentemente concesso, hanno senz'altro ragione a non volersi definire "supergruppo". Parleremmo piuttosto di una sorta di ecosistema creativo da difendere rispetto a qualunque pressione, che in questo caso si è dato ambizioni meno estemporanee. Non ha qui infatti ragion d'essere l'effetto sorpresa che suscitò clamore intorno al primo disco, anche solo per un interesse epidermico nei confronti della combinazione, già interessante sulla carta, fra le band di appartenenza. Da subito è stato chiaro quanto l'alchimia fra i quattro fosse qualcosa di imprevedibile e svincolato da tutto.
In "Nevermind The Tempo" l'attitudine è ancora più inedita perché i nostri si affrancano persino dall'assoluta fedeltà ai rispettivi strumenti musicali e si pensano come polistrumentisti al servizio di un'idea di suono da incontrare lungo il cammino, lavorando. Fabio Rondanini e Adriano Viterbini continuano a fornire la spina dorsale del laboratorio, ma poi le invenzioni si stratificano e diventa sempre più gradevolmente difficile capire le diverse fonti e le grammatiche usate. Senza contare che sono i protagonisti stessi a non curarsene, motivati da una ricerca di freschezza, senz'altro più urgente degli inevitabili egocentrismi. In quest'ottica è assolutamente plausibile, anzi necessario, che l'album suoni così diverso rispetto al precedente e che abbia dato luogo a uno spettacolo che ripensa anche il precedente materiale.
Cambia il momento, cambiano le urgenze creative, cambia conseguentemente anche la musica. Il fatto, da tanti rilevato, ivi compresi i diretti interessati, che si guardi alla vocalità di Alberto Ferrari e in un certo modo persino a una libera citazione-rilettura del formato canzone è, per quanto importante, solo uno degli elementi in gioco. Si sono approfondite ed estese anche le ricerche etnomusicali, quelle sulle possibilità produttive e post-produttive offerte dal lavoro in studio in cui Marco Fasolo è sempre in stato di grazia, quelle sull'arrangiamento come mezzo elettivo per portare altrove l'idea iniziale, non solo migliorarla, quanto svilupparla e seguirla nel suo farsi.
Ciascuno sceglierà da quali pezzi farsi conquistare maggiormente. L'augurio è che un disco così ben progettato, ma anche giocoso, divertente e divertito, portatore di una prospettiva multiculturale di cui il mondo ha grande bisogno, consegua un raggio d'azione sempre più ampio e anche, perché no, un interesse che vada oltre i confini nazionali.
07/08/2024