La chitarra multidimensionale di Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), il groove percussivo tentacolare Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), la sapienza di insieme e le saturazioni di basso di Marco Fasolo (Jennifer Gentle), le chitarre e il sempre più significativo apporto vocale di Alberto Ferrari (Verdena) sono ormai una realtà consolidata. Non lasciamoci però fuorviare né dai nomi di esperienza, né dall’inevitabile esaurimento dell’effetto sorpresa che scaldò gli animi all’epoca del primo album. Il math rock cosmopolita degli I Hate My Village è frutto di una ricerca che capitalizza il piacere di lavorare insieme e lo canalizza nella ricerca continua di qualcosa di innovativo, tanto sul piano emozionale, quanto su quello della scelta dei suoni. Il pubblico questo lo ha capito bene.
Dall’Ellenic Festival di Agrigento, all’Estate al Castello Sforzesco di Milano, dall’Anfiteatro delle Cascine di Firenze al salentino SEI Festival di Coolclub, passando per il SuperAurora Art & Music Festival di Roma, il Color Fest di Maida e l’immancabile appuntamento al Locus Festival di Locorotondo, gli I Hate My Village sono alle prese con un giro d’Italia che si protrarrà fino all’autunno e che a ogni appuntamento infiamma i fan con un set compatto, energico e creativo. Indubbiamente il progetto vi appare collocato nella sua dimensione ideale, quella del live. Li abbiamo incontrati “nel mezzo del cammin” del loro tour.
Il progetto I Hate My Village esiste già da un po’, il vostro primo disco è uscito nel 2019, siete sopravvissuti all’incubo della pandemia e il rapporto con il vostro pubblico si cementa sempre di più da un tour all’altro. Come sono oggi le dinamiche del live?
Quello che possiamo dirti, per quanto riguarda il modo in cui viviamo l’esperienza sul palco e soprattutto il tipo di energia con cui approcciamo i concerti, è che suonare dal vivo è come un risarcimento, per dirla ironicamente. E’ come se il contatto diretto con il pubblico ci risarcisse e anche in qualche modo ci liberasse di tutta la responsabilità, la fatica, l'impegno, la dedizione dedicati alla preparazione del disco. Questo non vuol dire che non ci siano un rigore, un metodo, un lavoro, però è indubbio che stare insieme su un palco ha un peso specifico notevole, soprattutto se a fare il disco ci hai messo tanto tempo.
E per quanto riguarda le vostre dinamiche interne invece? Si sono evolute nel tempo?
Sempre di più siamo una band vera e propria. Non ci è mai piaciuta l'idea di supergruppo che di tanto in tanto ci affibbiano, anche se poi, insomma, sulla carta il progetto poteva sembrarlo, soprattutto agli inizi. Di fatto, però, la nostra storia non è nata così, si è sempre basata sulla voglia di fare cose insieme. A un certo punto, nel mezzo del cammino della nostra vita, ci siamo letteralmente “trovati”. Siamo quattro persone completamente diverse, ognuna con il proprio carattere, che però stanno bene insieme, riescono a confrontarsi, a mantenere sempre un livello alto di concentrazione e allo stesso tempo di “cazzeggio”. E anche se siamo individui che hanno superato i 40 anni, è come se fare musica, creare in studio, ma soprattutto fare esperienza di palco insieme, ci rilanciasse, rilanciasse la nostra voglia di immaginare, fare progetti. Ci siamo un po' costruiti questo piccolo paradiso su cui poi fantasticare.
Chiaro. Un tratto caratterizzante della vostra evoluzione mi sembra il ruolo maggiore della voce di Alberto nelle nuove composizioni.
E certo! Nel primo disco Alberto è arrivato che il materiale era praticamente pronto, perché l’idea di usare la voce è nata in un secondo momento. Adesso siamo una band con un cantante e si scrive considerando la voce fin dal principio. Nel nostro repertorio ci sono anche, se vogliamo definirle così, delle canzoni.
Siete sulla via dei Lunapop, insomma.
Ecco sì, bravo. (ridiamo)
Intanto siete sbarcati anche in televisione. A “Propaganda Live” eravate totalmente a vostro agio e il tour era ancora da venire.
Infatti, lo hai detto, è proprio questo il punto. Siamo arrivati lì con una enorme voglia di suonare dal vivo, di fare uscire la musica nella sua forma più pura, che è quella dell'esibizione live. Il contesto è stato quasi secondario, anche se certamente Propaganda era un contenitore appropriato, gestito da persone che sapevano chi siamo, disponibili a valorizzarci, capirci e metterci in condizione di fare bene. Per il resto la nostra musica è un vestito che ci siamo costruiti su misura e siamo sempre felici di indossarlo e starci comodi.
Approfittando di questo riferimento “sartoriale”, e parafrasando il titolo di un vostro pezzo, mi viene da chiedervi se la musica rock è “un’arte minima”. Il vostro approccio alla musica, in altre parole, è artigianale?
Di per sé la musica rock è qualcosa di troppo grandioso, spettacolare, per poterla definire un’arte minima. Ci sono invece tantissime forme di piccolo artigianato che non fanno notizia, anzi spesso nemmeno si vedono, ma che succedono nel mondo. Il mondo non dedica loro attenzione, ma esistono e sono importanti. Alla cura di questi artigiani, alla loro pazienza ci si può ispirare per cercare sempre di trovare il bello nelle cose, di metterlo in quello che fai e di averne il massimo rispetto.
Nel tempo il vostro approccio esecutivo è diventato sempre più imprevedibile, anche dal punto di vista dei timbri. E’ una scelta?
In parte sì. Ognuno di noi in questa situazione degli I Hate My Village tende ormai a suonare il proprio strumento come se fosse un altro strumento, a rischiare altre strade rispetto a quelle che conosceva già. Questa cosa risponde a una esigenza creativa e in questo senso potresti parlare di scelta, ma non è niente di voluto, nel senso di predeterminato a tavolino. Rischiare, a volte, è una necessità anche nella vita e la musica rispecchia le nostre vite, in fondo. Una caratteristica che ci accomuna come musicisti e come esseri umani è quella di andare incontro al futuro con grande curiosità. Scalzi. Anzi con le scarpe strette.
E’ da un po’ che vorrei chiedervi una cosa. Sentendo tutti gli incastri poliritmici di “Water Tanks”, a me è venuto in mente il gamelan dei King Crimson di “Discipline”. E leggendo i titoli dell’album, quando ho visto “Eno degrado” ci ho visto un omaggio a “My Life In The Bush Of Ghosts”, il capolavoro di Eno/Byrne. E’ così?
Per il riferimento a “Discipline” ti ringrazieremo tutta la vita e a dire la verità ci può stare, però su “Eno degrado” dobbiamo deluderti. “Eno” sta per enoteca (ridiamo). Abbiamo registrato parte dei provini tra una ex-enoteca nella zona dove sta Adriano e il garage-laboratorio di suo padre. Quindi le idee erano tutte quante numerate come “Enoteca 1”, “Enoteca 2”, “Enoteca 3”… fino ad arrivare a “25 Enoteche”. Di queste, una l'abbiamo salvata ed è appunto diventata “Eno degrado”, che è un titolo che mette a fuoco alcune nostre attitudini, diciamo così, più “primitive”.
A proposito di istinti primitivi, visto che avete anche la parola odio nella ragione sociale, che oltretutto gioca sull’equivoco di suono fra “hate” e “ate” per fare riferimento alla locandina un cannibal movie, mi viene naturale chiedervelo. Litigate mai in tour o in sala di incisione?
Fra di noi c’è un grande affetto, ci sono stima e ammirazione reciproche e la voglia di fare le cose il meglio possibile. E insieme. A un certo punto la confidenza, come tra fratelli, aumenta, quindi si incappa in discussioni creative. Sono sempre costruttive però. Abbiamo tutti le nostre idee, ma la direzione è molto chiara tra di noi. Non è solo il fatto che abbiamo degli ego controllati, per cui a un certo punto anche se sei innamorato di qualcosa, ti fidi dell’esperienza e del punto di vista degli altri, l’aspetto principale è piuttosto che veniamo tutti da situazioni in cui abbiamo grosse responsabilità creative, umane e di gestione, mentre in questo progetto abbiamo voluto realizzare una zona di estremo comfort sul piano relazionale, per spiazzarci invece sul piano creativo.
Anche dal vivo usate la comfort zone per porvi nuovi traguardi musicali?
Sempre. Musicalmente rifuggiamo i sentieri noti e cerchiamo la strada in salita. Come persone, però, ne abbiamo passate tante, siamo grandi, insomma. Si tende a stare bene, a parlarsi subito, se c'è un attrito ad appianarlo, perché bisogna lavorare in serenità. E’ un lavoro che ci siamo scelti, questo. Non si tratta di cercare compromessi, quanto piuttosto di realizzare una sintesi che ci rappresenti tutti e che, almeno noi, siamo convinti che sia la cosa più bella che possiamo offrire al pubblico.
E’ stato difficile adattare il nuovo materiale alla dimensione live?
Abbiamo registrato l’ultimo disco senza mai pensare a come l’avremmo suonato dal vivo. Il primo album era un’istantanea, quindi era immediatamente riproducibile anche solo rifacendosi allo schema delle registrazioni, cioè partendo da un riff e costruendoci una struttura sopra. In questo caso è stato molto più complicato. Ci sono delle tastiere in alcuni brani del secondo disco, ma soprattutto c'è un utilizzo peculiare delle chitarre. Le chitarre di Alberto sembrano un tutt'uno con la sua voce, quasi come se le avesse registrate insieme, voce e strumento. Sono equilibri difficili, ma stimolanti da rendere dal vivo. Per questo non abbiamo valorizzato solo l’idea di una riproduzione il più possibile esatta, ma anche il metodo di cogliere e rilanciare i vari errori per sviluppare nuove idee e ampliare le strutture dei brani in modo che si prestassero a celebrare il momento dell’incontro con il pubblico, come in una sorta di rituale.
I Hate My Village (La Tempesta, 2019) | 6,5 | |
Gibbone (Ep, La Tempesta, 2021) | 7 | |
Nevermind The Tempo (Locomotiv, 2024) | 7,5 |