Probabilmente se lo sarà sentito dire tante di quelle volte che ne avrà le orecchie piene, ma Jan Bang dispone di un timbro che lo rende il gemello apocrifo di David Sylvian. Oppure no, d'altronde il musicista e produttore norvegese non è noto per sfruttare spesso la sua voce, tanto che questo “Reading The Air” è solo il suo secondo album solista a sfruttarla estesamente, il primo addirittura ventisei anni fa (lo stiloso “Pop Killer”, in area synth/downtempo). Da allora tanto è comprensibilmente cambiato, Bang è diventato tra i più stimati musicisti in patria, vera eminenza grigia in materia di jazz ed elettronica, e il Punktfestivalen da lui co-fondato è oramai un punto di riferimento culturale del Paese. E come a cambiare è stato il suo approccio alla musica, anche la sua voce si è ispessita, dotandosi di una pensosità poetica che in quest'ultimo album assurge a vero e proprio punto-focale. In linea con l'approccio medidativo degli ultimi lavori strumentali, allo stesso tempo decisamente meno esplorativo rispetto a quanto offerto col progetto Dark Star Safari, col nuovo ciclo di canzoni Bang elabora una sfuggente visione in materia di perdita e abbandono, un salto nell'ignoto che le sparse atmosfere del progetto reclamano a sé.
Nello sviluppare quest'album, amici di una vita e più recenti conoscenze hanno prestato il loro contributo, delineando un disco che assume quasi una direzione bandistica pur facente capo a una coordinazione unitaria. Dallo storico sodale Erik Honoré (co-produzione, testi e sintetizzatori), ad Arve Henriksen ed Eivind Aarset, passando per Anneli Drecker dei Bel Canto (che qui presta la propria voce) e il suonatore di duduk Canberk Ulaş, il tocco sparso del disco passa da un'architettura ben più complessa di quanto un primo ascolto possa rivelare, corazza il suo vitreo nucleo espressivo con un accorto lavoro di squadra. Fughe, abbandoni, autentiche storie di fantasmi: l'assenza e la morte vengono raccontate con sobria posatezza, Bang si fa portavoce degli ultimi tra gli ultimi (“Nameless”, brano dedicato ai tanti “senza nome” che popolano il campo profughi di Moria), esprime il conflitto con sottili nuance gotiche (la neve sintetica che accompagna “Burgundy”), affronta un lutto d'amore a fuoco lento, elaborando il vuoto con lenta consapevolezza (la seducente “Delia”, cover di Harry Belafonte).
Con la stessa economia del gesto di Sylvian, la stessa pregnanza data a ogni singolo attacco, a ogni parola, Bang abita spazi dominati da una natura che tutto avvolge e tutto cancella, affronta gli imminenti viaggi con mistero e paura (le vertigini cameristiche di “Food For The Journey”). Anticipa i silenzi, li fronteggia, li rivive in attesa della partenza definitiva: in questo senso “War Paint”, composta in memoria dello scultore Bård Breivik e della sua ultima apotropaica esibizione, con il suo tratteggio elettrico e gli sparsi fraseggi di tromba a definire un alveo hasselliano, è la più vivida rappresentazione di un'anima che ha imparato a prevedire i moti del vento, a cogliere le situazioni anche quando esse si rendono inevitabili. Leggere l'aria, per l'appunto, come recita il detto giapponese scelto per il titolo del disco: nei rari punti in cui il bianco non ha coperto lo scenario, la voce del musicista norvegese canta il vuoto, conscia che l'inverno la cancellerà presto.
06/02/2024