E' un superficiale ma frequente luogo comune ritenere che
l'amore per la cultura, la religione, le dottrine mistiche e la musica indiane
sia solo un effimero capriccio dell'era psichedelica: i Quintessence, così come
numerosi altri artisti (ci teniamo a citarne due importantissimi: John
McLaughlin e la magica Third Ear Band), sono la dimostrazione dell'inconsistenza
di tale ipotesi.
Provenienti da Notting Hill Gate, Londra, vollero
consacrare la "nuova" musica prog ai dettami del loro spirito, raccogliendo
numerosi consensi tra l'ancora viva comunità hippie e l'indifferenza più
totale della critica specializzata.
Il loro sound nasceva dalla
compenetrazione di tre elementi: da una parte la musica orientale, scelta
determinata dalla loro adesione spirituale alla dottrina vedica, e il retaggio
del rock psichedelico dei Sixties, e dall'altra un approccio decisamente
"progressivo", che vedeva nel flauto di Raja Ram (al secolo Ron Rothfield) uno
squillante e potente manifesto, non escludendo spruzzate di jazz-rock e il gusto
della jam libera e improvvisata.
La loro musica forse non influenzò
le generazioni future quanto quella di loro più illustri colleghi, ma aveva
sicuramente l'aspetto di una miscela ammaliante, suggestiva, allo stesso tempo
immanente e trascendente. Le possenti corde vocali di Shiva (al secolo Phil
Jones) davano il tocco finale, facendo risuonare i sacri versi delle canzoni del
gruppo come un magniloquente eco fra le solide montagne dell'essere. Il loro
indo-prog (o raga-rock, come alcuni preferiscono), ricco di preziosismi e
di sensuali fronzoli decorativi, fu visto a posteriori come una delle basi del
cosiddetto "new age rock", ma i loro album sono ben più di insopportabili
melensaggini pseudomusicali volte a chissà quale ozioso benessere: la loro è una
professione di fede vivace, pulsante, incessante, solare, sincera.
Il
loro primo album, In Blissful Company (1969), è un vero e proprio
gioiello e sicuramente il loro capolavoro: un ingresso come "Giants" è
imprescindibile, brano immerso in un'atmosfera ondeggiante e severa, solcata dal
ritmo spezzato della batteria, mentre con tono aulico Shiva racconta leggende
simboliche provenienti dalla tradizione orientale; "Manco Capac" è uno dei
momenti più ispirati dell'intera produzione: un vibrante e incantevole (o
incantatore?) flauto guida l'ascoltatore in una profonda riflessione sulla vita
e sull'amore, su un pulsante e brioso sottofondo. "Body" è divisa tra una strofa
vivace e un ritornello in climax, tutta costruita sui mirabili duetti tra il
flauto di Raja Ram e Shiva; "Gungamai" è un altro dei loro classici, nonché un
loro cavallo di battaglia live, un brano di grande immediatezza melodica, che
sfocia in una breve jam psichedelica a cui partecipa una chitarra più
liquida del solito.
Dal quinto brano è manifesta una delle caratteristiche
che rimarranno fino alla fine (o quasi) nello stile della band: la recitazione
del mantra, la parola di potenza che è alla base di varie correnti di base
induista (assume un'importanza fondamentale nel tantrismo). Qui si intitola
semplicemente "Chant", ed è noiosetto: meglio passare, da profani, alla traccia
seguente, quella "Pearl And Bird" (ancora una volta il tema proviene dalla
mitologia indiana) che profuma di primavera come la dolce aria d'aprile al
mattino presto, graziata da una melodia delicata arricchita da un sempre ottimo
lavoro di flauto. Segue "Notting Hill Gate", dedicata al loro quartiere, unico
singolo di successo della band (il lato B era "Move Into The Light"), con una
melodia discendente che trasforma un fraseggio bluesy in una scorribanda
di sitar, flauto e voce, dai toni eterni e mutevoli al tempo stesso, per aprirsi
in un intervallo jazzato e ritrovare poi la coerenza e la struttura
originarie. L'ambiziosa e lunga "Midnight Mode" è il vero punto debole
dell'album, sospesa fra preghiera e musica talmente lieve e rarefatta da poter
dare l'impressione di essere inconsistente.
La dimensione più congeniale
al gruppo è comunque sempre quella live: pressoché chiunque li abbia
visti dal vivo ne è rimasto fortemente impressionato. I loro spettacoli si
trasformavano spesso in veri e propri rituali collettivi, pieni di colori,
suggestive e incessanti danze, all'insegna di una religiosità vissuta con un
ottimismo e una positività tipici di una simile visione del mondo.
Per
tentare di catturare questa forma dell'arte del gruppo viene approntato
Quintessence (1970), un disco in parte live e in parte in studio,
che si apre con la tonante "Jesus Buddha Moses Gauranga", che spreca una buona
intuizione melodica in una struttura-canzone troppo restrittiva e tradizionale
(forse un primo tentativo di smorzare i toni per raggiungere il grande
pubblico). Si torna in carreggiata con la cantilenante ma godibilissima "Sea Of
Immortality", che rappresenta il loro lato più propriamente folk (anche se il
cantato è piuttosto trascinante e non esente da alzate di tiro); "High On Mount
Kailash" nasce da un etereo tappeto di sitar, che si fa sempre più denso, finché
non è squarciato da Shiva, per quello che si può considerare uno dei loro mantra
più belli da ascoltare, che sfocia direttamente in "Burning Bush", frenetica jam
registrata dal vivo, in cui è protagonista la camaleontica chitarra di Maha Dev
(al secolo Dave Codling), che si scatena in pirotecniche evoluzioni che lo
consacrano figlio illegittimo dell'acid-rock dei Sixties.
"Shiva's Chant" è
un intermezzo piuttosto noioso, cui segue l'impenetrabile "Prisms", un nucleo
compatto di fluttuanti acrobazie flautistiche, che sfocia nel fraseggio
chitarristico di "Twilight Zone", decisamente più piacevole, che mescola i
soliti ingredienti in maniera superba, aggiungendo un prepotente accordo di
settima (su cui culmina il ritornello) che dà al tutto un feeling molto
r&b. "Maha Mantra" è esattamente quello che dice il titolo, mentre la
delicata malinconia di "Only Love" è una delle loro prime concessioni a un certo
romanticismo da cartolina (che diventerà una delle convenzioni del genere nei
decenni futuri). Un'altra jam chitarristica live, l'infuocata "St.
Pancras", porta l'album fino alla sua naturale conclusione nell'ultimo mantra
"Infinitum".
L'individualità dei singoli membri della band è molto più
evidente in questo secondo album, e sono evidenti anche i limiti della loro
formula: un disco che avrebbe dovuto portare il discorso abbozzato nell'esordio
a un livello superiore rischia di cadere più di una volta nel fango
dell'autoparodia, se non fosse che è salvato da alcuni momenti ancora pregni
dell'antica magia.
L'inaridimento della vena artistica della band è, non
sorprendentemente, contemporaneo all'affievolimento della tensione spirituale
dei membri del gruppo: l'entusiasmo sta sfumando lentamente nella consapevolezza
(errata o meno) di aver raggiunto e colto quelle solide basi dell'essenza su cui
è tessuto come un lieve ordito il significato della vita. Dive Deep
(1971) è l'ultimo capitolo della loro trilogia classica, e mostra già evidenti
segni di stanchezza: la title track è una piacevolissima canzonetta
folk-pop, ravvivata da un arrangiamento sempre impeccabile, ma non sempre questo
basta per catturare l'attenzione dell'ascoltatore; il capolavoro qui è "Dance
For The One", una minisuite (era l'ora!) in cui si mostra in fiore tutto
il potenziale del gruppo: è il loro apice, la sostanza della loro poetica
riassunta in quasi undici, meravigliosi minuti di ottima musica.
Il resto
dell'album non può che apparire inferiore: dalla filastrocca "Brahman" (che
mostra il loro principale difetto: l'indole missionaria e, di conseguenza,
l'universalizzazione della dottrina del risveglio), alla più sentita "The Seer",
che sfodera una melodia che avrebbe trovato posto nel loro esordio, alla tediosa
"Epitaph For Tomorrow", fino al solito mantra, qui più temibile del solito: "Sri
Ram Chant".
Con Self (1971) sono passati pochi mesi, ma non poco
è cambiato: la casa discografica non è più la vecchia Island, ma la Rca; quel
processo che già s'intravedeva dietro le quinte del precedente album ha
raggiunto il suo culmine: i Quintessence vedono loro stessi alla fine del loro
percorso spirituale e ciò genera un abisso creativo da non sottovalutare, oltre
a contese all'interno della band su una possibile svolta verso un rock più
tradizionale (e commerciale). E' questo lo spirito di un singolo chiassoso e
immobile come "Cosmic Surfer", costruito su un banalissimo riff che sarebbe
stato già un rottame obsoleto cinque anni prima, o di una patetica "Wonders Of
The Universe", probabilmente la loro ballata più sterile.
I riempitivi si
affollano, uno dopo l'altro e concorrono in un tedioso e affaccendato agone per
la sostanziale inutilità: dalla brevissima "Hari Om" (neppure un minuto), al
confuso mantra (?) di "Halleluja", a "Celestial Procession" (versi di animali e
un po' di flauto, per un minuto e poco più) fino alla terribile "Self", il loro
mantra più brutto e deforme. Anche qui una parte è registrata live: si
tratta dei due brani finali "Freedom" e "Water Goddess", due jam più scialbe e
mosce del solito (soprattutto la seconda, che prende il via da una sonnolenta
versione di "Gungamai").
L'unico grande pregio di questa raccolta è la
poderosa "Vishnu Narain", uno dei loro brani più suggestivi e meglio ingegnati
dal punto di vista melodico: un ritornello orecchiabile ma non banale, un testo
ancora una volta (e forse è proprio l'ultima) profondo, che riflette sul
percorso spirituale del gruppo e sulle diverse problematiche a esso collegate.
Il resto dissolve il loro misticismo in un kitsch da statuina
soprammobile, dove si tiene a galla solo la grande abilità strumentistica e la
poderosa interpretazione vocale di Shiva.
Purtroppo proprio
quest'ultimo, il cantante capace di ravvivare anche i momenti più infausti della
loro carriera, abbandona la band nei primi mesi del 1972: la situazione è
critica come mai prima. Per esigenze contrattuali, e forse per un eccesso di
orgoglio, il gruppo decide di continuare lo stesso: il frutto di questa malsana
e affrettata soluzione è il pasticcio informe di Indweller (1972), il
loro disco peggiore, che basta a spazzare via la gloria del passato e a
trasformare questi alfieri dell'indo-prog in un gruppetto folk-rock di
scarso livello. Un lavoro di flauto apprezzabile in "It's All The Same" non
basta: l'album sprofonda nella mediocrità di episodi di pessimo gusto e
inconsistente, spiccio valore come "Jesus My Life", "Holy Roller" (la più
vigorosa), "On The Other Side Of The Wall", "Mother Of The Universe".
Dopo la pubblicazione di un mediocre live registrato con la nuova
formazione a quattro, la band si scioglie in maniera definitiva. Esce alla fine
dell'anno un compendio della loro trilogia Island, sotto forma della raccolta
Epitaph For Tomorrow; ma per l'ascoltatore occasionale che voglia avere
un approccio indolore alla poetica di questo gruppo è preferibile la successiva
antologia Oceans Of Bliss, che elimina gran parte del materiale di scarto
presente nella precedente e, soprattutto, evita di includere i noiosi mantra.
Nel 2003 Shiva torna a incidere come Shiva Shakti e pubblica un album
diviso tra nuovo materiale e rielaborazioni di brani della sua vecchia band. Nel
2005 esce il seguito di questo progetto, il doppio Cosmic Surfer, a nome
Shiva's Quintessence, dalla struttura simile (un album di nuove canzoni e uno di
reinterpretazioni di vecchi brani). Purtroppo, non si tratta di una
reunion del gruppo originale (della formazione del 1969 c'è il solo
Shiva), anche se, essendo il primo movimento in vista di ciò da una trentina
d'anni, è logico che desti interesse.
QUINTESSENCE | ||
In Blissful Company (Island, 1969) |
7 |
|
Quintessence (Island, 1970) |
6 |
|
Dive Deep (Island, 1971) |
5 |
|
Self (RCA, 1971) |
4 |
|
Indweller (RCA, 1972) |
3 |
|
Live (1972) |
4 |
|
Epitaph For Tomorrow (Edsel, 1972) |
6 |
|
Oceans Of Bliss: An Introduction To Quintessence (Universal, 2003) | ||
|
||
SHIVA SHAKTI | ||
Shiva Shakti (2003) | ||
|
||
SHIVA'S QUINTESSENCE | ||
Cosmic Surfer (Ecletic, 2005) |
Sito ufficiale |