Il sequestro e l'album "L'indiano"

Quando Fabrizio De André perdonò i suoi rapitori definendoli "sioux sardi"

A metà degli anni Settanta, Fabrizio De André decise di ritirarsi. “Smetto di cantare e formo una comune agricola in Sardegna”, dichiarò agli sbigottiti cronisti della rivista Nuovo Sound nel febbraio del 1976. Aveva solo 35 anni ed era reduce dal successo di “Volume VIII”, il disco nato dall'incontro con Francesco De Gregori. Il cantautore romano aveva portato in dote il suo tipico stile da fiaba metropolitana, mentre De André aveva messo la sua poesia cantata al servizio di confessioni autobiografiche struggenti - da "Amico fragile", metafora di chi si oppone per coltivare i suoi sogni solitari, alla non meno icastica "Giugno '73", epigrafe delle convenzioni del matrimonio borghese.
Ma quel successo non gli bastava più. Stanco degli obblighi contrattuali discografici, della mondanità e del ruolo pubblico che gli era stato cucito addosso, Faber cercava una dimensione più autentica. La trovò in Sardegna, nella campagna gallurese, dove acquistò un grande podere a dieci chilometri da Tempio Pausania: L’Agnata. Un casolare diroccato, senza elettricità né acqua, immerso nella macchia mediterranea. In quel luogo remoto, De André voleva ritrovare la libertà, la solitudine, la concretezza della vita contadina. “Per lui fu un modo per ritrovare la campagna astigiana perduta nell’infanzia - racconterà la moglie Dori Ghezzi - per sfuggire alle sue origini alto borghesi, per sottrarsi a un ambiente che troppo spesso ti vuole come un pinguino ammaestrato”.

Ma la Sardegna gli riservò anche l’esperienza più drammatica della sua vita. La sera del 27 agosto 1979, tre uomini armati e incappucciati irruppero all’Agnata, sequestrando Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Li caricarono su una Citroen Diane arancione, quindi li condussero, a piedi, in uno di quei luoghi che i sardi ironicamente chiamavano “Hotel Supramonte”: grotte e rifugi di fortuna sulle montagne. Per la precisione, alle pendici del Monte Lerno, presso Pattada.
I due furono tenuti prigionieri per quattro mesi, legati a una quercia, sorvegliati giorno e notte da pastori armati. Nel frattempo, ricerche e trattative si intrecciavano freneticamente, con risvolti anche tragicomici, come nell’aneddoto riportato nel libro “Amico fragile” da Cesare G. Romana, uno dei biografi di De André: “Le giacche azzurre perlustrarono le riserve sarde a caccia di indizi e di orme: si fecero riprendere dalla tv di Stato mentre fingevano di cercare i due rapiti, indovinate dove? In un boschetto vicino alla loro casa”.
Solo dopo il versamento di un riscatto di circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre di De André, Giuseppe, la coppia fu liberata: Dori il 21 dicembre alle 23, Fabrizio il 22 alle 2 di notte, tre ore dopo.

Dopo quell’evento drammatico, sorprendentemente, i due non lasciarono la Sardegna. Tornarono a vivere all’Agnata e rifiutarono la scorta offertagli dalla polizia. “Ci hanno già rapiti”, disse De André, “è come se fossimo vaccinati contro i sequestri”. Quella scelta, insieme alle parole che avrebbe pronunciato negli anni seguenti, rivelò un atteggiamento di comprensione verso i rapitori che sorprese l’opinione pubblica, in un periodo nel quale i sequestri erano quasi all’ordine del giorno, se si considera che nella sola estate del ’79 i banditi avevano in mano contemporaneamente, in tutta la Sardegna, ben dieci ostaggi. In una celebre vignetta, Forattini rappresentò l’isola a forma di orecchio mozzato grondante sangue. Cesare G. Romana scrisse che De André si macchiò del reato di “lesa borghesia”.
Durante il processo, De André non si costituì parte civile contro gli esecutori materiali del sequestro. Distinse tra loro e i mandanti: i primi erano “due pastori, due strumenti”, i secondi “persone benestanti che sequestravano per arricchirsi, non per sopravvivere”. Il 24 marzo 1983 i componenti della banda vennero condannati dal tribunale di Tempio Pausania a 183 anni complessivi di reclusione. E quando, anni dopo, uno dei carcerieri chiese la grazia, De André non esitò a firmarla.



Da quella vicenda nacque anche un’opera tra le più intense e profonde della sua carriera: l’album “Fabrizio De André” (1981), conosciuto come “L’indiano”. Scritto insieme al cantautore veronese Massimo Bubola, il disco intreccia la memoria del sequestro con riflessioni più ampie sulla libertà e sull’emarginazione.
La figura dell’indiano d’America in copertina divenne il simbolo di un parallelismo che Fabrizio sottolineò apertamente: “In quei quattro mesi di sequestro, avevo visto in loro più una tribù di indiani che gli esponenti di un’organizzazione mafiosa. E, nella loro lotta per la sopravvivenza, avevo visto qualcosa di simile al destino degli indiani d’America: da un lato pensavo agli indiani sterminati dai vari Custer e Chivington, ghettizzati nelle riserve dal potere che aveva rapinato le loro terre, dall’altro ai sardi, cacciati sui monti dai cartaginesi, poi dai romani, esattamente come i pellerossa. Entrambi depredati della terra, ridotti a senzapatria, sacrificati all’avidità dei loro invasori”. Gli assalti dei nativi americani alle diligenze degli invasori bianchi, secondo De André, non erano poi così diversi dai sequestri di persona compiuti dalla malavita sarda ai danni di ricchi: “Capita anche ai pochi indiani di Sardegna di assaltare le diligenze del padrone per riprendersi parte di quello che è stato loro tolto, specie quando non gli si concedono alternative. Ma è davvero tutta colpa loro, o piuttosto è anche dei tanti Custer che il colonizzatore gli ha mandato contro, in veste di finanzieri predoni? Io mi considero vittima di un drappello di Sioux che dovevano dimostrare il loro valore e ai quali il popolo bianco non lascia altro modo per guadagnarsi da vivere”
Nel disco, dunque, il racconto dello sterminio dei nativi americani (“massacrati da un’accozzaglia di ubriaconi nemmeno vestiti da soldati”, come dirà De André in seguito) si sovrappone alle identità lacerate dei popoli perdenti; la ricerca della libertà sfuma nella solitudine solo apparente dei pastori, che vivono immedesimati con la natura. Brani come “Hotel Supramonte”, “Quello che non ho” e “Fiume Sand Creek” riflettono quella visione: la prigionia diventa metafora dell’oppressione, il perdono si trasforma in un gesto politico e umano insieme.

Ma le parole di De André ancora una volta furono fraintese e condannate dai soliti benpensanti. Opinionisti di area conservatrice come Domenico Bartoli e Sergio Ricossa lo accusarono di essere un borghese viziato, un intellettuale con velleità rivoluzionarie, vittima della “sindrome di Stoccolma” - la presunta identificazione psicologica della vittima con i suoi sequestratori. Il suo perdono fu bollato come la prova di una debolezza morale e di un atteggiamento snob nei confronti della realtà.
Il cantautore genovese replicò pacatamente, ma con fermezza: “Vorrei che certi Catoni, certa gente che mi dice: ‘Dovevi prima impiccare e poi perdonare’, vivessero l’esperienza che abbiamo vissuto noi e provassero quanto è importante, in quelle condizioni, essere trattati con umanità. Potendoci fare del male, hanno scelto di trattarci bene. Per questo li ho perdonati. Se trovi un alibi a chi ti fa del male, ne esci più forte. Se invece la vivi solo come un’offesa, ne esci distrutto”. Era un modo, insomma, per restare fedele alla sua visione del mondo — la stessa che lo aveva portato, per tutta la vita, a cantare i deboli, gli oppressi e gli emarginati. In quei giorni all'"Hotel Supramonte", tra l'altro, De André non smarrì neanche la sua proverbiale ironia. Come raccontato di recente da Dori Ghezzi, quando uno dei rapitori gli disse che preferiva Guccini, gli rispose: "Potevate prendere lui allora!".

Negli anni seguenti, De André ribadì più volte la scelta del perdono. Durante un incontro nel carcere minorile di Is Arenas, nel 1992, un ragazzo gli chiese se avrebbe partecipato anche sapendo che tra loro poteva esserci uno dei suoi sequestratori. “Sì, sarei venuto lo stesso”, rispose. “Se scegli di perdonare, devi perdonare fino in fondo”. Il sequestro e il perdono segnarono profondamente la sua biografia e la sua poetica. E la Sardegna rimase per lui un luogo fortemente simbolico, come la riserva dei Sioux: terra di silenzi, di dolore, ma anche di resistenza. E alla fine, come ebbe a dire con la sua consueta, paradossale lucidità, “li osservavo durante il sequestro, e pensavo che i veri sequestrati in realtà fossero loro”.

(Un ringraziamento al sito Spazio70.com per le preziose informazioni d'archivio)

07/10/2025